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Berenice Abbott e col suo obiettivo la «Grande Mela» svelò ogni segreto

Per la prima volta in Italia una selezione di 82 stampe originali realizzate tra metà degli anni ’20 e i primi ’60

NUORO. Negli anni Venti, a Parigi, se ti fotografavano Man Ray o Berenice Abbott, eri qualcuno.

O perlomeno, lo eri nell’ambito intellettuale degli espatriati che avevano scelto la capitale francese (e il quadrilatero attorno a Rue du Bac, vicina alla Sorbonne, ma lontana da Montmartre) per riannodare vite che nei loro Paesi erano negate.

Così fu per lo stesso Man Ray, così si mosse James Joyce, così addirittura per un francese sui generis come Jean Cocteau.

Berenice Abbott era il bel fiore all’occhiello della comunità esistenzialista: lesbica dichiarata, fotografa elegante, tra le poche ammesse nello studio di Man Ray, signorina americana dell’Ohio ma cresciuta in una comune del Greenwich Village.

Il suo occhio, però, era diverso: se ne accorsero quasi subito i francesi, questa piccola donna era completamente digiuna di tecnica, ma possedeva un piglio eccezionale.

Ed era bella, tanto che Man Ray le chiese di posare come modella. Ma Berenice cresceva e assorbiva: i suoi scatti arrivano al Premier Salon Indépendant de la Photographie, sulla scalinata del Théâtre des Champs-Élysées.

E da queste immagini parte la bella antologica che il MAN di Nuoro dedica ad una delle più originali e controverse protagoniste della storia fotografica del Novecento.

L’esposizione, terza di un grande ciclo dedicato alla «Street Photography», a cura di Anne Morin, presenta per la prima volta in Italia una selezione di ottantadue stampe originali realizzate tra la metà degli anni Venti e i primi anni Sessanta.

Suddiviso in tre macrosezioni –Ritratti, New York e Fotografie scientifiche – il percorso espositivo segue passo passo la vita e l’estro di Berenice Abbott.

E torniamo alla vita dell’artista che ha fotografato Cocteau, James Joyce, Max Ernst e André Gide, assidui frequentatori del suo studio con artiste di rottura come Jane Heap, Sylvia Beach, Eugene Murat, Janet Flanner, Djuna Barnes, Betty Parson: nel 1925 Man Ray le fa conoscere le immagini di Eugène Atget, di cui la Abbott diventa una grande ammiratrice tanto da cercare di acquistare gran parte dei suoi negativi alla morte del fotografo.

Ci riesce e dal 1928 in poi inizia rapidamente a lavorare alla loro promozione: nasce il primo volume, Atget, photographe de Paris, a cui seguirà anni dopo, The World of Atget.

Ma è la mano di Atget ad interessarla: su questa scia, Berenice Abbott decide di rientrare in America e dedicarsi allo «studio» fotografico di New York.

È il 1929, è appena crollata Wall Street e la metropoli è ferita a morte: Berenice Abbott inizia a documentare la città e continua per sei anni – gli stessi in cui conosce il critico d'arte Elizabeth McCausland, che diventerà la sua compagna fino alla morte, nel 1965 –. Il risultato è uno dei capisaldi per chiunque voglia studiare la fotografia: Changing New York, pubblicato nel 1939, è un punto di svolta: il volume di Berenice Abbott è una full immersion nella metropoli che si scrollava di dosso la Grande depressione e rivedeva i suoi quartieri, gli slum degli immigrati, gli edifici in mattoni bruciati, le comuni.

Usando una macchina fotografica a grande formato, la Abbott ha fissato nella storia una New York City straordinaria, in cui si riconoscono molti edifici e isolati di Manhattan, oggi scomparsi.

I forti contrasti di luci e ombre e le angolature dinamiche hanno fatto il resto e le hanno consegnato la palma di fotografa della Grande Mela. Il terzo e ultimo periodo della sua vita la trova picture editor perScience Illustrated: l’esperienza maturata nelle strade la porterà a guardare con occhi diversi le immagini scientifiche, che diventano per lei uno spazio privilegiato di osservazione della realtà oltre il paesaggio urbano.

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