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Scontro col Messico sul muro, Trump: dazi del 20% per costruirlo

WASHINGTON. Il presidente messicano Enrique Pena Nieto annulla l'incontro di martedì prossimo alla Casa Bianca perché non vuole pagare il muro al confine con gli Usa. E Donald Trump risponde annunciando che imporrà dazi doganali del 20% sulle merci messicane importate in Usa per finanziare la barriera.

È la prima crisi diplomatica e la prima guerra doganale per il neo presidente, investito da una bufera per il suo ordine di costruire immediatamente un muro al confine col Messico e di dare un giro di vite all'immigrazione clandestina, condito con l'ennesimo apprezzamento per il waterboarding e il licenziamento del capo della polizia di frontiera.

Una stretta che sarà completata con lo stop indeterminato ai rifugiati siriani e per almeno 120 giorni a quelli di altri Paesi, con la sospensione inoltre per almeno un mese dell'immigrazione da Paesi a maggioranza musulmana e spesso flagellati dal terrorismo, come Libia, Siria, Somalia, Sudan, Iran, Iraq, Yemen.

La rottura con il presidente messicano si consuma in un duello tutto a colpi di tweet, diventato con il tycoon la nuova arena della diplomazia. Incalzato anche dall'opposizione, Enrique Pena Nieto ha annullato la sua visita dopo che Trump lo aveva ammonito a non venire "se il Messico non è disposto a pagare per il muro di cui c'è disperato bisogno".

Un muro che costerà 12-15 miliardi di dollari, ha annunciato lo speaker della Camera Paul Ryan, prevedendo che il Congresso approvi i fondi entro fine settembre. Pena Nieto, con cui Trump voleva iniziare a rinegoziare l'accordo commerciale nord americano (Nafta), aveva reagito subito al suo annuncio sulla nuova barriera, chiedendo "rispetto" per la sovranità nazionale e ribadendo che il suo Paese "non crede nei muri" e "non pagherà alcun muro".

Sean Spicer, portavoce della Casa Bianca, ha tentato di gettare acqua sul fuoco: "Cercheremo una data per fissare qualcosa in futuro. Manterremo aperte le linee di comunicazione". Trump ha provato a far passare la cosa come una decisione "congiunta" perché altrimenti l'incontro sarebbe stato "infruttuoso" ma poi si è vendicato minacciando tramite lo stesso Spicer dazi al 20% sull'export messicano (316 mld dlr nel 2015) che permetterebbero di raccogliere 10 miliardi di dollari l'anno.

Nel frattempo anche il presidente cubano, Raul Castro, ha messo in chiaro di non volersi piegarsi ai diktat del presidente americano per proseguire il disgelo avviato da Obama: "Continueremo a negoziare" ma senza che questo implichi "concessioni legate alla nostra sovranità e indipendenza".

Il muro e la stretta sugli immigrati stanno mobilitando la protesta nel Paese. Da un lato sono scesi in campo i vescovi Usa criticando una politica che aumenterà le sofferenze e lo sfruttamento. Dall'altro è tornato in strada il popolo anti Trump, con una inedita alleanza tra musulmani e latinos: ieri con una veglia di alcune centinaia di persone vicino alla Casa Bianca e con una marcia a Manhattan di migliaia di manifestanti, oggi con oltre 3000 attivisti a Filadelfia all'arrivo del tycoon per il 'ritiro' dei repubblicani, omaggiato dalla premier britannica Teresa May.

Spopolano intanto sul web gli hashtag #NoBanNoWall e #RefugeesWelcome. In rivolta anche le cosiddette 'città santuario', quelle che proteggono gli illegali e alle quali Trump ha deciso di tagliare i finanziamenti federali. Sono circa 300, tra cui Chicago, San Francisco, Newark (New Jersey), New Haven (Connecticut). New York, che potrebbe vedersi togliere 7 miliardi di dollari, guida la protesta con il sindaco Bill de Blasio: "Questo è il sogno americano davanti ai vostri occhi.

Non permetteremo che ce lo tolgano", ha detto ai manifestanti, promettendo di difendere "tutti, a prescindere da dove vengono e dai loro documenti di identità". Ad aumentare le preoccupazioni, e non solo dei difensori dei diritti umani, sono le indiscrezioni sulla possibile riapertura delle carceri segrete della Cia all'estero per interrogare i terroristi e l'ambiguità di Trump sul waterboarding, l'annegamento simulato in fase di interrogatorio ritenuto una tortura e abolito da Barack Obama nel 2009: "Assolutamente, penso che funzioni", ha ribadito il tycoon, scaricando però la decisione finale sul capo della Cia Mike Pompeo e sul segretario alla Difesa James Mattis.

Il suo partito, Ryan in testa, lo ha già sconfessato, bocciando inoltre alla Camera la sua richiesta di un'indagine su brogli elettorali ritenuti inesistenti. E la May, uno dei principali alleati su cui il magnate può contare, ha già avvisato che Londra potrebbe interrompere la collaborazione con l'intelligence Usa se gli Usa dovessero adottare la tortura.

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