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Basquiat, genialità e dannazione: quell’artista fragile che rivisitò il mondo - Foto

MILANO. Una spugna. Che assorbiva tutto, suoni, colori, fotografie, libri d’arte, suggerimenti, idee. E lo risputava, mixato ad una sensibilità fuori dal comune, graffiando muri e superfici come se volesse sempre aggrapparsi alla vita.

Distrutto dall’eroina, Basquiat ha lasciato il mondo in fretta, ma il suo tratto resta lì, imperterrito, con la sua voglia di andare sempre avanti. Il MUDEC (Museo delle Culture) di Milano dedica all’artista di New York - (intimamente, profondamente, di New York), amico di Andy Warhol e Keith Haring, legato per sei mesi a Madonna -una retrospettiva firmata dall’amico Jeffrey Deitch, critico, curatore ed ex direttore del MOCA di Los Angeles, e dal saggista Gianni Mercurio, promossa dal Comune di Milano e da 24 ORE Cultura che la produce. Il MUDEC continua dunque nel progetto di racconto dei linguaggi visionari dell’oggi e apre le sue porte a uno dei protagonisti (seppure per un tempo brevissimo, visto che Jean Michel Basquiat è morto nel 1988 a soli 27 anni) della scena artistica americana e non solo.

In tanti hanno cercato di codificarlo: Art brut per alcuni, neo visual art per altri, pop art per altri ancora.

Ma in effetti, Basquiat è una cosa a sé: artista maledetto - se si poteva ancora esserlo in un’epoca di tumulto artistico continuo quale è stato il secolo scorso -, figlio dei fiori in ritardo, erede di groupie adrenaliniche.

Tutto e nulla, etichetta dopo etichetta anzi meglio, post-it fluo a corredo dei suoi «scarabocchi». Basquiat si è divertito a guardare il mondo, poi –quando questo si è ricordato che sì, era un artista, e che sì, era «nero» – gli ha dato un calcio e si è distrutto a modo suo. La sua è una profonda contraddizione tra voglia di vita e autosospendersi dalla stessa; che è poi la contraddizione di quegli anni, delle band, degli artisti che passavano velocemente dagli altari ai sottoscala.

Il percorso della mostra del MUDEC –aperta fino al 26 febbraio –è pensato seguendo due chiavi di lettura: da un lato, l’elenco tematico dei luoghi «occupati» da Basquiat, dall’altro, il tempo, profondo e veloce, che ha cannibalizzato in fretta un artista emotivamente fragile, che non aveva mai superato il suo essere nato a Brooklyn (quando non era ancora un «borough» alla moda), da due immigrati, un contabile haitiano e una portoricana naturalizzata; né digerì la separazione dei genitori, l’incidente ad otto anni che gli porta via la milza, i mesi da vagabondo, i primi graffiti sul Jacob Riis con Al Diaz, firmati SAMO, acronimo di «Same Old Shit» («solita vecchia merda»). Sono anni difficili, ma Basquiat legge, guarda, osserva, digerisce, comincia a farsi notare. New York è una pentola straordinaria piena di odori e colori, e lui si guadagna la vita disegnando e vendendo cartoline. Un giorno entra n un ristorante di SoHo, e offre le sue card ad Henry Geldzahler ed Andy Warhol, che ne comprerà alcune.

Non è un inizio, passeranno molti anni da quell’incontro, ma alla fine Basquiat riuscirà ad entrare nella Factory più famosa al mondo.

La mostra lo racconta in toto: 140 lavori realizzati tra il 1980 l’anno in cui si rompe il sodalizio con Al Diaz e Basquiat scriverà sui muri, «SAMO is Dead» – e il 1987, l’anno prima della sua morte.

Accanto alle opere di grandi dimensioni, ci sono disegni, foto, collaborazioni con l’amico Andy Warhol e una serie di piatti di ceramica in cui Basquiat ritrae personaggi e artisti di ogni epoca: rural art, quel riciclo che oggi va tanto di moda, ma soprattutto un segno garfico inconfondibile, pieno di rabbia, molto più di quello dell’amico Keith Haring. La maggior parte di questi pezzi fa parte della collezione di Yosef Mugrabi – imprenditore e collezionista israeliano, possiede la più grande rassegna al mondo di Andy Warhol, 800 dipinti oltre ad opere di Renoir, Picasso, Rodin, Ernst, Daumier, Damien Hirst e Jeff Koons. Nel novembre 1988, da Sotheby, Mugrabi ha acquistato 20 Marilyn di Warhol per quasi 4 milioni di dollari - a cui di aggiungono altre opere da altri prestatori privati. Dai numerosi pezzi di Basquiat in mostra, si nota il rincorrersi dei temi: la musica e il jazz (suona spesso al Mudd Club con il suo gruppo, Gray, con Vincent Gallo; i fumetti, adorati sin da piccolo; l’anatomia, passione nata dopo l’incidente, quando la madre gli regalò un libro sul corpo umano; ma anche la poesia e la scrittura, utilizzata per raccontarsi, parlare di differenze razziali edemarginazione.

La mostra va avanti anche cronologicamente: dai primi (enigmatici, poetici) graffiti di SAMO, sui muri del Lower East Side, alle prime opere firmate Basquiat, dipinte su finestre e porte abbandonate per strada, dedicate all’energia e alla cacofonia di New York, alle sue sirene, ambulanze, insegne (All beef hot dogs), ma anche le famose griglie tracciate sui marciapiedi, le stesse usate dai bambini per giocare.

Le parole, cancellate e riscritte sullo sfondo, arriveranno solo dopo.

Basquiat comincia ad essere noto, riconosciuto, vive a carico degli amici, fino a quando un italiano, Emilio Mazzoli, non lo invita ad esporre: la prima personale di SAMO è nel 1981, a Modena, ma alla critica italiana non piace per nulla, anzi viene schernito. La gallerista Annina Nosei lo chiama e gli offre uno studio in Prince Street – iconografia vuole che vivesse sfruttato in un seminterrato: si è scoperto ben presto che si trattava di uno studio arioso e bello, molto (troppo) frequentato dai collezionisti -, dove Basquiat creerà alcune delle sue opere più interessanti, sicuramente tecnicamente più evolute, stilisticamente avanzate e pensate. New York lo acclama, lo vogliono tutti, sono gli anni in cui tenta di disintossicarsi dalla droga, la vita è bella, la gente lo riconosce, avrà anche una breve liaison con un’esordiente Madonna. Dopo Prince Street passerà al loft di Crosby Street, dove lavorerà alcuni mesi con la tv sempre e accesa sintonizzata sui cartoon.

Ritrova Andy Warhol che lo sostiene e gli affitta uno studio ricavato da una rimessa per carrozze in Great Jones Street, a NoHo: qui Basquiat diventa più profondo e spirituale, circoscritto in se stesso, le opere divengono più piccole e raccolte.

Il suo nuovo gallerista, Bruno Bischofberger, gli propone di lavorare sei mani con Francesco Clemente e lo stesso Warhol.

Dopo quindici opere, Basquiat ed Andy Warhol si ritrovarono soli e complementari: nacque per soli tre anni, la più bella ed elegante collaborazione dell’arte contemporanea di fine secolo, Basquiat incoraggiò Warhol a ritornare alla pittura a pennello; Warhol lo spinse ad indagare la serigrafie e la stampa in serie, rendendolo uno delle firme più conosciute della pop art in serie.

Sarà anche la fine: la critica lo definisce «la mascotte di Andy», Basquiat cade in depressione, è paranoico e ricomincia con le droghe, sempre più forti. 1985: Basquiat appare sulla copertina del New York Times con il titolo «New Art, New Money: The Marketing of an American Artist», ma critici e gallerie si allontanano.

La morte di Andy Warhol per un’operazione non riuscita gli darà il colpo di grazia: pochi mesi dopo, morirà per overdose, a soli 27 anni.

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