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Che sia la fine del peggio. Buon anno

Fiori sul luogo dell'attacco a Berlino del 19 dicembre

Che fine d’anno è questa? Chiudiamo il 2016 senza rinunciare alla speranza. Ma è forte la sensazione amara di una fine d’anno che festeggiamo in un tempo che non finisce. Si ripetono gli scenari di un terrorismo che uccide e insanguina le strade del nostro Occidente e ora, in particolare, della nostra Europa. Che travolge la vita di giovani europei, di giovani italiani. Un’azione che si svolge tra l’Italia e la Germania, un profugo che diventa terrorista in un percorso che muove da Palermo a Berlino, un uomo in fuga da solo che riesce a superare tre confini in quattro giorni. Quante incertezze e reticenze? Quante lentezze e omissioni? E quante strutture e cellule si muovono nell’ombra, ancora sconosciute ?

Colpiti a morte, i paesi europei cercano riparo ciascuno nelle sue nicchie, nei suoi confini. Sognano muri e reti protettive. Certo, Anis Amri arrivava via mare, sbarcava in Sicilia da profugo, era un uomo fra i tanti assiepati in un barcone. Si è ora all’evidenza di nuovi fattori di rischio colpevolmente, e per molto tempo, negati e non previsti. Ma i nostri avversari non hanno tra gli obiettivi Berlino o Roma, Londra o Parigi. Come scrive Gilles Kepel, grande islamista francese, «l’ideologia sottesa allo stato islamico non fa distinzioni nazionali: l’intera Europa è il campo di battaglia dove sconfiggere l’apostasia». Ricordando poi che già «…nel manifesto di Abu Musab al Suri del 2005 si fa appello ai giovani europei, musulmani e convertiti, per colpire in una logica diversa dal passato...» (La Stampa.it, 25 dicembre).

In questo stato delle cose, una scelta diventa conseguente. Se il terrorismo muove un attacco all’Europa, per fronteggiarlo e sconfiggerlo ci vuole più Europa. Non meno. Invece vediamo euroscettici e populisti guadagnare spazi ovunque, anche nella nostra Italia. Uno sforzo di comprensione si impone. Da parte di tutti. E sappiamo che non basta dire più Europa. Bisogna con chiarezza elaborare progetti, spiegare di più e meglio, rinunciare a conquiste che si ritengono acquisite per sempre. Un’Europa in grado di fronteggiare meglio e di più il terrorismo deve mettere in campo più risorse, più uomini, più mezzi. Per finanziare modelli di accoglienza che producano vera integrazione, per creare opportunità e crescita nei paesi da cui gli immigrati partono. E per essere credibile, entusiasmare e convincere, deve crescere, creare sviluppo, superare diseguaglianze sempre più inaccettabili. Deve, in poche parole, produrre di più per distribuire di più. Invece vediamo un’Europa che regredisce e annaspa, con ritmi di crescita sempre più lenti rispetto alle maggiori aree del pianeta.

Per crescere di più, l’Europa deve rilanciare quel sistema dove ha trovato i suoi splendori, con libere imprese che competono tra loro, nel rispetto di regole uguali per tutti. Producendo quella ricchezza crescente con cui ha soddisfatto diritti di libertà e bisogni sociali. Con cui ha tutelato i più deboli e superato la povertà. Quel meccanismo si è rotto. Si è finito col vivere, chi più chi meno, al di sopra dei propri mezzi. I bilanci statali, in misura diversa, si sono svuotati. La pressione fiscale ha scoraggiato gli investimenti e l’impresa, i ceti medi hanno vissuto il trauma di una brusca inversione, dal benessere all’impoverimento.

Bisogna ritrovare quella strada. Questo vale ancora di più per noi, per l’Italia. L’anno si chiude nel vuoto politico. Una spinta riformista si è interrotta. Segnando maggiori incertezze rispetto all’anno prima. Questioni cruciali restano aperte. Una riforma del lavoro ha prodotto qualche posto in più ma non basta per dare fiducia a giovani disorientati e privi di futuro. Una ripresa in economia si è avviata (come conferma l’Istat) ma in misura troppo ridotta rispetto ai bisogni. Si resta nel guado tra riforme necessarie e politiche bloccate. La pressione fiscale resta alta. La propensione agli investimenti è scarsa. I consumi restano bassi. Prevale la paura del baratro. Anche chi potrebbe spendere non spende. È sempre più necessaria la svolta che, da più parti, si sollecita da tempo. Occorre uno Stato meno invadente, una spesa pubblica senza sprechi, una tassazione più contenuta per rilanciare consumi e produzione senza dimenticare che l’Italia, proprio l’Italia, ha livelli di produttività molto più bassi che altrove e che lo Stato deve impiegare le sue risorse per consentire alle imprese italiane di nascere, vivere e crescere e per dare fiducia alle imprese straniere disposte a venire in Italia.

I nostri lettori lo sanno. Su questa «svolta», nelle nostre pagine, insistiamo spesso. Perché la vediamo tanto più necessaria proprio in Sicilia, dove l’impiego di fondi pubblici segue, da molti decenni, percorsi impropri che hanno prodotto - e ancora producono - indecenti devianze. Bastano pochi dati. Siamo la regione col maggior numero di dipendenti pubblici (nella Regione e nei municipi). Con il maggior numero di dirigenti.

Ma l’inefficienza dei nostri servizi pubblici è sotto gli occhi di tutti e i livelli di sviluppo del nostro sistema sono inesistenti. Siamo, nello stesso tempo, ai vertici per numero di disoccupati e in coda a tutte le classifiche per numero di occupati. Non si può continuare così. Bisogna cambiare. Tanto più che esistono nell’Isola attitudini e competenze per fare industria. Su queste abbiamo acceso i nostri riflettori. Raccontando le storie di imprenditori operosi che si affermano nei mercati, di donne che fanno impresa con risultati importanti, di produttori attivissimi che raggiungono livelli di eccellenza.

Ma anche di giovani che in Sicilia, proprio in Sicilia, si mettono in gioco, creando aziende ad alta tecnologia, scoprendo il gusto del far da sé senza aiuti, mettendo in luce estro e creatività. Sono loro i protagonisti possibili di una Sicilia migliore in un’Italia migliore. E quando diciamo cambiare, non pensiamo solo ai profili dell’economia. Perché questa può crescere di più e meglio, se cambia la qualità del potere, se i rapporti tra cittadini e istituzioni sono trasparenti e chiari, senza quelle obliquità ancora diffuse che inducevano un grande siciliano come Salvatore Pappalardo a dire: «Anche questa è mafia, quella sensazione di sentirsi protetti da un amico, o da un gruppo di amici che contano...». Continueremo a dare loro spazio. Perché possa aprirsi, con il 2017, un tempo nuovo che chiuda il peggio del tempo vecchio. Buon Anno.

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