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La Consulta boccia la riforma Madia: su dirigenti serve ok da Regioni

ROMA. La Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità della riforma Madia sulla P.A. nella parte in cui prevede che l'attuazione della stessa, attraverso i decreti legislativi, possa avvenire con il semplice parere della Conferenza Stato-Regioni o Unificata. Secondo la Consulta, che si è pronunciata dopo un ricorso della Regione Veneto, è invece necessaria la previa intesa. La pronuncia di legittimità riguarda le norme relative alla dirigenza, partecipate, servizi pubblici locali e pubblico impiego.

La Corte ha circoscritto il giudizio alle misure della delega Madia impugnate dalla Regione Veneto, lasciando fuori le norme attuative. "Le pronunce di illegittimità costituzionale colpiscono le disposizioni impugnate solo nella parte in cui prevedono che i decreti legislativi siano adottati previo parere e non previa intesa", si spiega nella sintesi della sentenza. In particolare, sono stati respinti i dubbi di legittimità costituzionale relativi alla delega per il Codice dell'amministrazione digitale.

Le dichiarazioni di illegittimità costituzionale riguardano quindi esclusivamente le deleghe al Governo "in tema di riorganizzazione della dirigenza pubblica", "per il riordino della disciplina vigente in tema di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni", "di partecipazioni azionarie delle pubbliche amministrazioni e di servizi pubblici locali di interesse economico generale". La Consulta, guardando al futuro, sottolinea comunque che "le eventuali impugnazioni delle norme attuative dovranno tener conto delle concrete lesioni delle competenze regionali, alla luce delle soluzioni correttive che il Governo, nell'esercizio della sua discrezionalità, riterrà di apprestare in ossequio al principio di leale collaborazione".

Nonostante le riforme avviate in questi ultimi 25 anni - dichiara il coordinatore dell'Ufficio studi della Cgia Paolo Zabeo - siamo ancora a metà del guado. Non facciamo più parte del club dei Paesi unitari, ma non possiamo neppure considerarci un Paese federale. Se sul fronte fiscale la quasi totalità del gettito tributario finisce nelle casse dello Stato centrale, gran parte della spesa, al netto degli interessi sul debito pubblico e della previdenza, viene gestita dalle Amministrazioni locali. Dei 432 miliardi di spesa pubblica al netto di interessi e previdenza, il 53 per cento è in capo a Regioni, Province e Comuni. Insomma, la quasi totalità delle nostre tasse finisce a Roma, ma oltre la metà della spesa viene amministrata da Regioni e autonomie locali».

La composizione del gettito tributario per singolo livello di governo è molto articolata. Dei 389 miliardi di euro di imposte che lo Stato centrale incassa dai contribuenti italiani, ben 154,8 miliardi sono riferiti al gettito Irpef, 94,7 miliardi all'Iva, 30,5 miliardi all'Ires e 24,3 miliardi all'imposta sugli oli minerali. Le Regioni, invece, possono contare principalmente sul gettito Irap pari a 28,1 miliardi di euro, sull'Irpef che è costata ai contribuenti 11,5 miliardi di euro e sull'addizionale regionale Irpef per un importo di 11,3 miliardi.

I Comuni, infine, nel 2015 hanno potuto contare su 16,8 miliardi di gettito Imu, su 4,7 miliardi di Tasi e su 4,4 miliardi dall'addizionale comunale Irpef. «Grazie al blocco degli aumenti introdotto dal Governo Renzi nella legge di Stabilità 2016, quest'anno - spiega - le tasse locali non sono aumentate. Anzi, hanno subito una diminuzione a seguito dell'abolizione della Tasi sulle abitazioni principali, dell'Imu sugli imbullonati, dell'Irap sulle aziende agricole e sul costo del lavoro».

Tuttavia, per la Cgia, il quadro sulla distribuzione delle entrate non racconta l'evoluzione dei rapporti tra centro e periferia. Tra il 2010 e il 2015, infatti, sempre secondo l'associazione artigiani di Mestre, i Comuni hanno subìto un taglio dei trasferimenti da parte dello Stato centrale di 11,9 miliardi. Per salvaguardare i bilanci e i servizi erogati alla popolazione i sindaci hanno aumentato le tasse locali di 11,3 miliardi.

«Se da questa operazione lo Stato ha tagliato le uscite diventando più virtuoso e i Comuni ci hanno 'rimesso' 600 milioni di euro, a pagare il conto più salato - conclude una nota della Cgia - sono stati i cittadini e le imprese che hanno dovuto compensare i mancati trasferimenti subendo un fortissimo aumento dei tributi locali. Con la sostituzione dell'Ici con l'Imu, ad esempio, il carico fiscale sui capannoni e sui negozi è più che raddoppiato, passando da 4 a 9,5 miliardi di euro».

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