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Teatro, un tuffo negli anni '60 con Amii Stewart - Video

ROMA. «La prima volta che le vidi in tv, non credevo ai miei occhi. Com'era possibile che tre ragazze con la pelle nera come la mia fossero proprio lì, a cantare a tutto il mondo?».

Al tempo Amii Stewart era poco più che una bimba, ma quella diretta se la ricorda ancora oggi che dagli Stati Uniti, dove è nata, è diventata una stella internazionale. Ancor di più ora che, tutina argentata e parruccone afro in testa, si è rituffata in quei mitici anni '60 con «La via del successo - Dreamsister's», il musical di Tiziana D'Anella e Lena Sarsen ispirato alla carriera di Diana Ross & The Supremes, la band femminile che scalò le hit parade mondiali fino a conquistare un posto nella celebre Hollywood Walk of Fame.

Con la regia di Enzo Sanny e una colonna sonora di 26 brani da far saltare in pista anche le platee più composte, lo spettacolo arriva al Teatro Olimpico di Roma dal 3 al 15 maggio, per poi proseguire tra Sanremo, Varese, Genova e Montecatini.

«Il musical - racconta la Stewart - è costruito sulla falsa riga della storia di Diana Ross & The Supremes. Ma soprattutto racconta un'epoca e la lotta contro i pregiudizi razziali attraverso i successi di fantastici cantanti di rhythm'blues che ancora oggi ascoltiamo, come Aretha Franklin, James Brown, Tina Turner, Marvin Gaye, Otis Redding».

Protagoniste sono tre ragazze di Detroit con il sogno di cantare, interpretate insieme a Lucy Campeti e Francesca Haicha Tourè, e un giornalista con il volto di Sergio Muniz (nel cast anche Will Weldon Roberson, Jean Michel Danquin e Martina Gatto).

Con l'orchestra dal vivo, lo spettacolo corre sulle note di evergreen come Listen, Think, I'm telling you, You can't hurry love, I feel good, Soul man, Joyful Joyful e anche Knock on wood, portato al successo proprio dalla Stewart negli anni '80, «ma che, pochi sanno, uscì invece allora. Per me tutti quei cantanti - prosegue l'attrice - erano veri miti. Da bambina, a Washington, non vedevo l'ora che mio fratello maggiore uscisse
di casa per correre in camera sua e ascoltare di nascosto i suoi 'intoccabili' 45 giri. Se cantavo? Urlavo i loro testi. Addirittura la prima e unica volta che mia mamma mi diede una sberla fu quando a 12 anni saltai la scuola per andare di nascosto un concerto di James Brown. Come ogni ragazzo nero,sognavo di esserci io su quel palco: noi usciamo già dalla pancia della mamma ballando».

E proprio la voce di artiste come Diana Ross, il piano di Ray Charles o la tromba di Miles Davis, furono determinanti per cambiare la prospettiva di un'intera nazione.

«L'America - racconta la Stewart - era ancora così segnata dal razzismo che dovettero fondare un'etichetta discografica per gli artisti neri. I loro brani non potevano correre nelle classiche dei bianchi. Il programma di Nat King Cole venne chiuso perchè non piaceva che cantasse insieme ai suoi amici non di colore o che toccasse in tv una donna bianca. I primi cambiamenti arrivarono piano piano. Fu potente l'impatto delle marce di Martin Luther King nel Mississipi, soprattutto quando al suo fianco iniziarono a comparire anche i primi bianchi. Ma anche la musica fece tantissimo».

Non solo tra chi innamorandosi del rhythm'blues superava barriere e pregiudizi, ma anche per chi iniziava a credere in nuovi orizzonti. «La prima volta che vidi le Supremes in tv non credevo ai miei occhi - conclude la Stewart -. Se erano lì, voleva dire che la 'nostrà musica poteva finalmente uscire dalla Chiesa Battista e arrivare al mondo. Ti dava la sensazione che con la tenacia fosse davvero possibile tutto».

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