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Di Lello: "I boss non cercano più i politici ora agganciano gli imprenditori"

PALERMO. «Per anni abbiamo seguito il filone politico, ma oggi il vero nodo è nei rapporti tra mafia ed imprenditoria». Non ha dubbi Giuseppe Di Lello, membro dello storico pool antimafia di Palermo, nonché eurodeputato e poi senatore di Rifondazione Comunista, che parla anche di una «Cosa nostra indebolita» e della «chiusura definitiva della stagioni delle stragi».

Cosa ha pensato appena ha saputo del duplice omicidio di via Falsomiele? Ha avuto il dubbio, come alcuni hanno sostenuto, che potesse essere il segno di una nuova guerra di mafia?
«No, assolutamente. Ho pensato che si dovessero aspettare gli sviluppi per capire, ma in ogni caso, anche se fosse stato un duplice omicidio di mafia, sarebbe stato ”chirurgico” e non certo il segnale di una nuova guerra, perché quella stagione è finita, prima di tutto per i mafiosi. Una stagione, quella stragista, che ha causato solo danni a Cosa nostra, dal carcere duro ai sequestri dei patrimoni».

Cos’è Cosa nostra oggi?
«La mafia è stata molto indebolita sul piano militare e questa opzione è stata così abbandonata. È debole anche nel controllo del territorio: oggi col pizzo riesce a stento a mantenere le famiglie dei detenuti. Ha ancora invece grandi legami con gli affari e il nodo ormai è proprio nell’imprenditoria. Ci siamo adagiati per troppo tempo sul filone politico. Sia chiaro però che l’ipotesi secondo cui la mafia riuscirebbe a controllare l’economia nazionale o addirittura la borsa è una favola. I mafiosi fanno grandi affari e nei grandi appalti, si pensi all’Expo, spuntano sempre, ma neanche la ‘Ndrangheta, che oggi è la mafia che veramente deve far paura, riesce a condizionare l’economia nazionale. Credo peraltro che la ‘Ndrangheta sia così forte anche perché in Calabria non c’è stata una reazione civile, qui in Sicilia, invece, ci sono grandi speranze di riscossa collettiva».

Con Cosa nostra indebolita può essere che Palermo stia diventando una città “normale”, coi problemi che attanagliano tutte le altre grandi città?
«Non c’è dubbio che Palermo abbia riacquistato la sua dimensione di città ”normale”. Ricordo gli anni ‘80, il vuoto, le strade deserte la sera. Resta però una città povera, arretrata, anche culturalmente, che vive di assistenzialismo. Sono stati chiusi grandi complessi industriali, come la Fiat, e c’è senz’altro una desertificazione del terziario, settore che era peraltro già debole. Si sconta la paralisi di una Regione che non ha senso far esistere, se non per gli interessi dei deputati regionali. Un governatore come Rosario Crocetta, dopo aver cambiato ben 54 assessori finora, avrebbe dovuto andare a casa».

Insomma, ora che non c’è più il paravento della forza di Cosa nostra, delle guerre di mafia, vengono a galla tutti i limiti della politica?
«Sì, bisognerebbe avere altre forme di sussistenza e accantonare l’assistenzialismo».

Prima ha detto che la chiave va cercata nei contatti tra mafia ed imprenditoria e recentemente ha dichiarato che oggi solo un boss di quartiere potrebbe appoggiare un politico. Perché e quali sono oggi i rapporti tra mafia e politica?
«Non credo che oggi la mafia riesca a condizionare il consenso intorno a un partito, anche perché i partiti sono scomparsi, restano bande, gruppi di potere agguerriti tra loro. Oggi la mafia ha bisogno degli imprenditori e eventualmente di appoggi nei circuiti amministrativi per gli appalti».

Cosa ha pensato invece quando è venuta fuori l’inchiesta sull’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, Silvana Saguto? Delle intercettazioni in cui – pur non commettendo alcun reato – appena tornata da una cerimonia commemorativa della strage di via D’Amelio, criticava la sensibilità dei figli di Paolo Borsellino?
«I commenti al ritorno della cerimonia sono un fatto personale, ma la vicenda delle Misure di prevenzione è sconcertante. Lo sapevano tutti come funzionava, persino io che non frequento più il palazzo di giustizia da 20 anni, e nessuno ha detto niente. È un bene che sia venuto fuori, ha determinato una svolta nella gestione dei beni confiscati».

Perché se tutti sapevano, come dice lei, nessuno ha parlato?
«C’è sempre una solidarietà corporativa, un timore di mettere in discussione eventuali colleghi, ma come funzionavano le cose, anche sul piano tecnico, lo sapevano tutti. Tanto che ora si stanno smontando diversi importanti sequestri».

A proposito di via D’Amelio, secondo lei come è potuto avvenire un depistaggio così clamoroso, col quale, sulla scorta delle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, sono state condannate all’ergastolo persone che non c’entravano nulla?
«Bisogna fare una riflessione sulla professionalità di chi ha avuto tra le mani Scarantino. Anche in questo caso, i dubbi c’erano e Ilda Bocassini, per esempio, lo mise nero su bianco. Non è l’unico errore giudiziario che è stato compiuto, purtroppo ce ne sono stati altri».

E i magistrati non dovrebbero anche loro rispondere di eventuali colpe a questo punto? Cosa pensa del dibattito sulla responsabilità civile per i suoi ormai ex colleghi?
«Questo è un tasto delicato, perché di mezzo c’è un potere dello Stato deputato al controllo della legalità. O si regolamenta una responsabilità civile molto cauta, non mettendo il giudice davanti ad eventuali ricatti, ma con delle garanzie enormi, o si rischia di scadere in una situazione pericolosa in cui qualunque imputato può ricattare chi ha il potere di giudicarlo. Il magistrato dovrebbe rispondere sì di eventuali responsabilità, ma non può essere spinto ad autocensurarsi».

Dopo 30 anni, cosa resta del Maxiprocesso?
«Resta tutto, da allora in poi tutto è cambiato in Italia, non solo in Sicilia e quel metodo, quella determinazione, la possibilità che la mafia potesse essere giudicata e condannata è un esempio per cui nessuno più ha potuto avere alibi. La nostra legislazione antimafia è stata ripresa dall’Ue, persino dall’Onu. Si pensi al lavoro del procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, che con quel metodo prima ha rivoluzionato il sistema giudiziario a Reggio Calabria e ora a Roma, o ai giudici di Milano, alle prese con le infiltrazioni mafiose al Nord. Qualcuno ha sostenuto che essendo morti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non fosse rimasto nulla: è semplicemente una stupidaggine».

Lei decise di abbandonare il pool a un certo punto. Perché e, col senno di poi, rifarebbe la stessa scelta?
«Quella fu una scelta concordata con gli altri. A me non andava di lavorare con l’allora procuratore Antonino Meli, che voleva essere aiutato a smembrare il pool. Sono rimasto a fare il giudice istruttore, senza più lavorare al Maxiprocesso, che allora era comunque arrivato al suo terzo filone. Fu giusto così, non mi pento».

E dell’antimafia cosa resta?
«Le prove che ha dato una certa antimafia ci hanno fatto riflettere su cosa deve essere l’antimafia, oggi c’è finalmente una riflessione, senza tabù, su questo tema. Prima chi si definiva antimafioso diventava ”intoccabile”, ma credo che quando icona dell’antimafia è diventato persino Ciancimino junior (Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito, ndr), la gente abbia iniziato a farsi delle domande».

Crede che la verità su tanti buchi neri della storia siciliana possa venir fuori da un processo come quello sulla trattativa tra Stato e mafia? E, ed è una domanda un po’ oziosa, il pool di cui lei ha fatto parte avrebbe costruito un castello accusatorio come questo?
«Su quello che avrebbe potuto fare il pool sono sempre molto cauto: non si può dire e non penso che dobbiamo far ragionare Falcone e Borsellino, visto che purtroppo sono morti. Parlo per me: io non l’avrei fatto. Per il resto credo che in Italia le verità non si siano mai sapute, la verità non appartiene a questo Paese. Dovrebbe cambiare anche il senso civico degli italiani, qui non c’è mai stata un’opinione pubblica. Oggi pretendiamo la verità per Giulio Regeni, la pretendiamo dall’Egitto, ma nel contempo non vogliamo introdurre nel nostro codice il reato di tortura. Chiediamo la verità, senza paradossalmente renderci conto che oggi non abbiamo risposte né sulla strage di Portella della Ginestra, né su quella di Ustica, per esempio».

Di Falcone e Borsellino parla ormai chiunque. Può dire lei, che ha lavorato con loro non a un processo ma alla stesura di una pagina di Storia, chi erano, cosa avevano che oggi eventualmente manca da un punto di vista investigativo?
«Avevano in più una grandissima capacità di lavoro, una grandissima memoria e un’immensa competenza tecnica. Pur essendo giudici istruttori, erano il cervello dell’antimafia, Falcone era riconosciuto da tutti come il vero capo. Avevano un carisma che derivava da fatti concreti. Erano poi credibilissimi anche all’estero: Falcone alzava il telefono e parlava con l’Fbi e con gli inquirenti svizzeri, oggi non credo che nessun magistrato in Italia sia in queste condizioni».

Potrebbe dipendere anche dall’esposizione mediatica di cui godono oggi i magistrati?
«Anche. All’epoca non si cercava pubblicità, non c’era affatto questa ossessione. Pensi che in tanti anni non abbiamo mai fatto una conferenza stampa, oggi sono quasi un appuntamento fisso».

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