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Tosato: «Armi e soldati, ecco il potenziale del Califfo in Libia»

Conosciamo le principali roccaforti, i movimenti e gli obiettivi, sappiamo che molti miliziani e capi militari arrivano dal Medio Oriente e che il confine con le altre organizzazione jihadiste o con le bande criminali operanti sul territorio è assai labile. Ma quante armi possiede il Daesh in Libia, e di che tipo? Francesco Tosato, responsabile Affari militari del Centro studi internazionali e coautore di un approfondito dossier Cesi sulla crisi libica - recentemente inviato alle Camere - è molto cauto sui numeri, «impossibili da quantificare con esattezza», ma è in grado di fotografare le capacità belliche del Califfato, dunque la cifra della sua forza. «Per fare il quadro – precisa – bisogna innanzitutto considerare l’origine: l’arsenale che fino al 2011 era a disposizione dell’esercito regolare, e dopo la caduta di Gheddafi, una volta aperte le caserme, è finito dapprima in mano ai rivoltosi poi alle varie milizie dislocate nell’area, trasformando la Libia in un supermarket delle armi».

Dunque?
«Sicuramente gli uomini dell’Isis non hanno alcun problema di approvvigionamento per i fucili d’assalto: i vari modelli di kalashnikov sono diffusissimi sul territorio. Per farci un’idea basta solo ricordare che l’esercito di Gheddafi poteva contare su circa 50 mila effettivi e 40 mila riserve, e che ogni soldato aveva in dotazione almeno uno di questi fucili, se non di più. Ad oggi nella regione ne circolano almeno 100mila. Lo stesso discorso si può fare per una serie di armamenti leggeri in uso nella fanteria, e oggi sicuramente a disposizione degli jihadisti in gran quantità, dai lancia razzi modello RPG-7 alle mitragliatrici PKM. E poi ovviamente ci sono le armi pesanti, come i carri armati T55 di epoca sovietica e gli altri cingolati da combattimento un tempo utilizzati dalla Difesa del regime. La maggior parte è finita alle forze fedeli al governo di Tripoli o all’esercito di Tobruk, o alla milizia che oggi controlla Misurata – una delle più potenti di tutta la Libia – ma è ragionevole ipotizzare che una ventina di questi mezzi corazzati sia oggi nelle mani del Daesh».

Ma gli uomini del sedicente Stato islamico sono in grado di utilizzarli?
«Non nella maniera tradizionale, perché non hanno la preparazione sufficiente, visto che l’Isis non dispone ancora delle tipologie di addestramento tipiche di un esercito regole. Ma possono comunque usarli, o come cannoni mobili oppure con modalità terroristiche, come già successo in Siria e Iraq: riempiono il cingolato di tritolo e lo lanciano contro sedi istituzionali. Il sistema è quello dell’autobomba, ma con risultati più devastanti, perché maggiore può essere la quantità di esplosivo installata e perché i mezzi corazzati sono più difficile da fermare ed efficacissimi come arieti. È molto probabile, inoltre, che nelle disponibilità del Daesh ci siano anche dei missili anticarro, di cui l’esercito di Gheddafi era abbastanza fornito. Si tratta di missili di produzione russa, del tipo AT-3 o AT-4, certo datati (anni ’70) ma comunque ancora efficaci. E non è escluso che abbiano anche sistemi anticarro Milan, più nuovi, di fabbricazione occidentale, provenienti anch’essi dall’arsenale libico o venduti dal Qatar ai ribelli del regime e poi finiti sul mercato nero».

Ma considerando il rapporto tra questo arsenale e il tipo di addestramento, qual è il punto di forza militare dell’Isis in Libia?
«Più che i carri armati, il loro cavallo di battaglia, resta il Pick-up, la jeep armata con mitragliatrice o cannone anti aereo. Nel deserto questo tipo di mezzi garantisce grande agilità e velocità, e consente facilmente ai miliziani di mettere a segno azioni del tipo “colpisci e fuggi” classiche della guerriglia, contro i convogli o contro postazioni nemiche».

Ma ad oggi nell’area libica su quante unità può contare il Califfato? L’Onu parla di circa 3000, statunitensi e britannici di almeno 6000 mentre la Francia ne conta addirittura 10mila.
«Secondo le nostre stime i jihadisti veri e propri, preparati attraverso un serio addestrato in Siria, in Iraq o in altri scenari del Medio Oriente, arrivano a circa 1500, ma a questi si devono aggiungere altri miliziani che potremmo definire “manovalanza locale”, meno formati dal punto di vista militare. Così il totale sfiorerebbe le 4000 unità. Altre valutazioni indicano numeri più alti semplicemente perché considerano tutto l’insieme della galassia jihadista libica, a cominciare da organizzazioni storiche come Ansar al-Sharia – presenti sul territorio già prima che cadesse il regime di Gheddafi – e il cui atteggiamento nei confronti del Daesh non è ancora definito. È tuttavia ipotizzabile che con un intervento internazionale in Libia il marchio Isis possa intensificare l’effetto magnete che ha già oggi nell’area, e che questi gruppi decidano di operare sotto il suo ombrello o di fondersi tout court con esso».

Circa 4.000 uomini, con arsenale datato e un addestramento in parte lacunoso. Non è che stiamo sopravvalutando la potenza dei jihadisti?
«La loro vera forza in questo momento è un’altra. Il Daesh guadagna terreno proporzionalmente alle situazioni di anarchia, e la Libia è attualmente nel caos, con un vuoto sia politico che militare, con regioni e città frammentate nei rivoli di comando di decine di milizie, che magari formalmente si riconoscono nel governo di Tripoli o di Tobruk, ma di fatto pensano solo ai propri interessi. In uno scenario di questo tipo è inevitabile che il Califfato cresca sempre di più, sfruttando gli ampissimi spazi di manovra che si trova davanti. Se l’orizzonte non cambia, se non si forma un governo di unità nazionale, se gli si lascia ancora tempo, quei 4000 uomini nei prossimi mesi diventeranno molti di più. Rispetto al caos, lì dove si insedia, l’Isis impone un suo modello di ordine (terrorista), sostituendo le proprie leggi a quelle di uno stato che non c’è. Poi, eliminando qualsiasi genere di concorrenza, riesce a coagulare e a inglobare altre realtà jihadiste, perché ha comunque un marchio importante. In questo modo la progressione diventa esponenziale».

Un anno e mezzo fa erano poco più di mille anime, concentrate a Derna. Come sono cresciuti?
«Hanno coltivato le giovani generazioni, controllando certi servizi pubblici, dagli ospedali alle scuole. Hanno aumentato la loro capacità magnetica e reclutato centinaia di persone, deluse da altre esperienze di matrice qaedista, o semplicemente attratte dal brand vincente Isis».

Per espandersi hanno anche bisogno di denaro. Qual è la fonte principale?
«In questo momento la maggior parte dei finanziamenti arriva soprattutto da donatori privati, famiglie benestanti che operano negli scenari del Medio Oriente, ma qualcosa arriva anche dai proventi che il Daesh ottiene dal commercio di petrolio nell’area irachena. E poi c’è tutto quel sottobosco di introiti che deriva dal controllo dell’area libica, come il pedaggio pagato dai trafficanti di uomini e di doga. Comunque, al momento, la situazione per l’Isis non è particolarmente florida. Lo dimostra il fatto che i miliziani stanno cercando di conquistare in tutti i modi i pozzi e le raffinerie di petrolio vicine a Sirte. Se ci riusciranno faranno il salto di qualità».

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