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Conflitto in Siria, «Troppe potenze in gioco: la carneficina non è finita»

Già falliti, in realtà mai davvero iniziati, i negoziati Onu per la pace in Siria. Ogni ipotesi di «cessate il fuoco» è stata esclusa ancora in queste ore dal presidente Bashar al Assad, mentre Riad Hijab - leader dell'Alto Consiglio dell'opposizione - ha affermato che nessun accordo sarà possibile «fino a quando rimarrà in carica» il dittatore. Mai dire mai, però: «Definitivo è un aggettivo quanto mai inappropriato per la crisi siriana», esclama Marco Di Liddo, analista del «CeSI», il Centro Studi Internazionali presieduto da Andrea Margelletti.

Malgrado tutto, possibile sperare ancora che la mattanza siriana finisca presto?
«Ogni qual volta, negli ultimi anni, ci si è trovati di fronte ad una situazione "definitiva" o potenzialmente tale, sono regolarmente intervenuti improvvisi cambiamenti. Basti pensare all'intervento militare russo, per certi aspetti improvviso e inaspettato, che ha salvato il regime di Assad quando il suo collasso sembrava imminente. Le Nazioni Unite hanno fatto e continueranno a fare il possibile per il raggiungimento di un compromesso ma, purtroppo, l'assertività degli attori politici coinvolti nel conflitto rende il negoziato molto complesso».

Una tragedia, troppi protagonisti?
«Non possiamo dimenticare che la crisi siriana ormai trascende la dimensione di un mero conflitto interno e si è trasformata in un gigantesco confronto tra potenze regionali, modelli culturali e sistemi politici agli antipodi. Finché gli interessi delle Monarchie del Golfo, dell'Iran, della Russia, della Turchia e degli Stati Uniti seguiranno strade confliggenti, l'opera del Palazzo di Vetro sarà complicata. Infine, non bisogna sottostimare la possibilità di improvvise e rischiose azioni di forza da parte di Arabia Saudita e Turchia che, irritate e preoccupate dalla resurrezione assadiana, potrebbero valutare forme di intervento miranti a creare una zona cuscinetto nel nord della Siria e garantire così, i canali di approvvigionamento per i ribelli. La battaglia di Aleppo potrebbe essere il punto di svolta».

Perché?
«Più i lealisti avanzano, meno i ribelli hanno potere negoziale. Più i lealisti avanzano, tanto più Turchia e Arabia Saudita vedono naufragare le proprie aspirazioni egemoniche nella regione».

Anche la presenza dei pasdaran iraniani è stata definita dai nemici di Assad un ostacolo all'intesa. Nessun riferimento esplicito, invece, all'intervento militare russo. Perché?
«Questa omissione è volontaria ed attiene a due fattori politici ben precisi. Il primo riguarda la natura "segreta" della presenza dei Guardiani della Rivoluzione iraniani in Siria. Ufficialmente, Teheran ha dichiarato di aver inviato semplici consiglieri militari e non gruppi armati a diretto sostegno dei lealisti sul campo di battaglia. Tuttavia, la realtà è ben diversa».

Secondo fattore?
«La volontà di costringere i pasdaran al ritiro nasconde il desiderio delle potenze sunnite di ridimensionare il ruolo della grande repubblica sciita in Medioriente, soprattutto dopo i successi diplomatici ottenuti dalla leadership pragmatista di Rouhani. Va aggiunto, poi, il fatto che l'Iran e il suo alleato libanese Hezbollah sono in grado di proiettare un maggior numero di uomini sul terreno, cosa che la Russia non può e probabilmente non vuole fare. L'intervento russo, invece, non viene contestato sia per ragioni politiche, visto che risulterebbe difficile negare ad una potenza del calibro del Cremlino la possibilità di agire liberamente in Siria, sia per ragioni giuridiche, in quanto i russi sono gli unici legittimati dal diritto internazionale a intraprendere operazioni militari in territorio siriano».

Gli Stati Uniti sono lo «sponsor principale» dell'Alto Consiglio. Il fallimento dei negoziati e' innanzitutto addebitabile a Obama e ai suoi alleati occidentali?
«In questo caso, no. Il ginepraio geopolitico siriano è troppo complesso per poter essere risolto unilateralmente da un unico Paese, anche se questo Paese si chiama Stati Uniti d'America. Obama ha delle responsabilità nella gestione della crisi siriana soprattutto nella sua fase iniziale. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che l'ingresso di Mosca e Teheran nella partita per Damasco ha limitato i margini d'azione di Washington».

Mosca è tornata a essere protagonista sulla scena internazionale. Una svolta (incruenta) nella crisi potrebbe essere impressa proprio da Putin?
«Se Obama non può essere additato come unico responsabile dello stallo della crisi siriana, nello stesso modo Putin non può essere considerato il salvatore della patria. Certo, il Presidente russo ha mostrato un atteggiamento muscolare nella sua azione di politica estera, ma è fortemente consapevole di non poter vincere la guerra da solo. Una cosa è certa, più i lealisti guadagneranno terreno grazie al supporto russo, più Damasco e Mosca potranno imporre le loro condizioni nei negoziati. In ogni caso, appare molto difficile immaginare una soluzione incruenta portata avanti dalla sola Russia che, al contrario, ha dimostrato di essere disposta ad utilizzare la forza in maniera spregiudicata per il raggiungimento dei propri obbiettivi».

Stando a un rapporto appena diffuso dal «Syrian Center for Policy Research» di Beirut, cinque anni di guerra civile hanno provocato la morte di 470 mila persone tra civili e uomini armati. Cos'altro può accadere in quel Paese?
«Sinceramente, dopo 470.000 morti è davvero difficile immaginare scenari peggiori. La situazione attuale è davvero drammatica e senza negoziato, purtroppo, la carneficina andrà avanti e con essa tutti gli effetti collaterali, tra i quali, l'emergenza umanitaria e migratoria».

Forse, si può già parlare di «ex Siria». Unica soluzione al conflitto, lo smembramento di quella nazione?
«Il Paese che conoscevamo, oggi è un disegno su una mappa o poco più. Le ferite sociali, politiche e culturali create dalla guerra necessiteranno di molto tempo per essere sanate e, chiunque vincerà nel conflitto militare dovrà portare il peso della vera sfida futura, ossia la costruzione della pace. Al di là del futuro assetto istituzionale, esiste il rischio che il dopo-guerra sia ben più violento della guerra stessa».

Cioè?
«Senza una precisa strategia politica, la nuova Siria potrebbe somigliare all'Iraq del 2003-2006, tempestato dalla campagna terroristica delle organizzazioni jihadiste. In ultima analisi, sia i futuri vincitori che i futuri vinti vorranno massimizzare i propri benefici e monetarizzare politicamente il prezzo delle battaglie combattute. Una soluzione federale potrebbe essere una possibile risposta, ma occorrerà ricucire i rapporti tra alawiti e sunniti e considerare la reticenza turca alla nascita di un'eventuale regione autonoma curda al proprio confine meridionale».

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