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Ciancimino ai pm: "Provenzano fece arrestare Riina"

PALERMO. Parte dal cosiddetto "contropapello", l'elenco stilato da Vito Ciancimino, che aveva ritenuto irricevibili le richieste fatte dal boss Riina allo Stato per far finire le stragi mafiose, l'esame di Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco di Palermo che sta rispondendo alle domande dei pm al processo sulla trattativa Stato-mafia.

Dopo avere letto cosa Riina chiedeva per interrompere la strategia del sangue inaugurata con l'omicidio dell'eurodeputato Salvo Lima e proseguita con la strage di Capaci, Vito Ciancimino, anche consigliato da Bernardo Provenzano, che incontra a Palermo il 17 luglio del 1992 - racconta il figlio, che nel processo è imputato - decide di mediare e far avere alle istituzioni, tramite i carabinieri del Ros delle richieste più soft.

"Mio padre non voleva avere rapporti con Riina - dice Ciancimino jr - ma sia il signor Franco (agente dei Servizi a conoscenza della trattativa ndr), sia Provenzano, con cui aveva un rapporto unico, gli dissero che non si poteva prescindere da Riina".

"Il 19 luglio del 1992 stavo andando a Fregene, mio padre mi disse di rientrare subito a Roma. I telegiornali davano tutti le immagini della strage di via D'Amelio. Mio padre mi disse 'la colpa è tua, mia, nostra che abbiamo alimentato tutto questo'. Aggiunse che 'quel pazzo' di Riina stava tentando di rilanciare visto che lo Stato gli aveva offerto di trattare dopo la strage di Falcone". Lo ha raccontato Massimo Ciancimino al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.

Vito Ciancimino - secondo il figlio - si era sempre detto contrario al dialogo con Riina, che riteneva un pupazzo. Diceva che "se avessimo eliminato subito Riina dalla discussione e avessimo fatto prendere potere a Provenzano si sarebbe evitato tutto quel sangue", ha spiegato Ciancimino, che nel processo è imputato.

A fine agosto del 1992, Vito Ciancimino chiama il figlio e gli dice di contattare il capitano Giuseppe De Donno, ufficiale del Ros, braccio destro di Mario Mori: entrambi sono imputati al dibattimento. Sono, secondo Ciancimino jr, gli intermediari tra il padre e le istituzioni nel dialogo con Cosa nostra. Nel frattempo l'ex sindaco mafioso ha incontrato Bernardo Provenzano. E rilancia la sua vecchia idea. "Per fermare le stragi bisognava prendere Riina, mio padre ne era convinto - ha raccontato Ciancimino - I carabinieri a quel punto capiscono che l'interlocutore mafioso diventa Provenzano e che in cambio gli si sarebbe dovuta garantire la libertà perché lui era l'unico che avrebbe potuto portarci a Riina".

"Mancino e Rognoni erano i soggetti indicati dal signor Franco (agente dei servizi secondo Massimo Ciancimino, ndr) e dai carabinieri come coloro che avrebbero garantito fattibilità alle richieste di Riina per porre fine alla strategia stragista. Mio padre non stimava nessuno dei due. Pensava che non fossero in grado di garantire una svolta nella legislazione sul crimine organizzato e riteneva Violante l'unica persona con queste potenzialità, in quanto ex magistrato e anima nera dell'intreccio politica magistratura".
L'ARRESTO DI RIINA. L'arresto del boss Totò Riina, il 15 gennaio 1993, e il contributo che Vito Ciancimino e il boss Bernardo Provenzano avrebbero dato alla cattura del padrino latitante sono stati al centro dell'ultima parte dell'esame odierno di Massimo Ciancimino al processo sulla trattativa Stato-mafia. Ciancimino jr, che è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia, ha raccontato che il padre, dopo la strage di Via D'Amelio, consolidò l'idea che solo l'estromissione di Riina dalla scena avrebbe fatto finire gli attentati mafiosi e che in seguito a diversi incontri con Provenzano decise di dare un contributo alla sua cattura. Massimo Ciancimino fece avere a Provenzano delle piantine catastali, fornitegli dai carabinieri del Ros, perché questi indicasse dove si nascondeva il boss.
"Venni avvisato da uno dei parenti di Pino Lipari dove dovevo ritirare la busta con le mappe - ha raccontato - E andai a prenderle, il 19 dicembre del '92 mi pare, direttamente dalle mani di Provenzano che mi disse di farle avere subito chiuse a mio padre". Nel frattempo, però, Vito Ciancimino viene arrestato a Roma dalla polizia. Solo dopo la cattura del padre Massimo Ciancimino apre la busta. "C'era una zona
cerchiata ed erano evidenziate le utenze dell'acqua e del telefono per risalire all'intestatario della villetta in cui si nascondeva", ha detto.
In un primo momento Ciancimino, che non voleva essere ricollegato all'arresto del boss, spaventato si rifiuta di consegnare le mappe ai carabinieri. "Poi il capitano De Donno (ex ufficiale del Ros imputato al processo ndr) mi chiamò dal carcere e mi passò mio padre che mi disse di dargli le buste. Cosa che feci a breve giro di tempo", ha spiegato. In cambio dell'aiuto, Provenzano avrebbe avuto l'impunità e Ciancimino documenti per l'espatrio e la tutela del patrimonio dalle misure di prevenzione. Ma di fatto l'ex sindaco mafioso non ebbe alcun documento e rimase in carcere. "Mi disse - ha detto il figlio - che lui aveva fatto il suo dovere, ma non vedeva ancora i risultati".
La cattura di don Vito venne vista dai suoi familiari come una "trappola" tesa dai carabinieri che prima l'avrebbero usato, poi lasciato al suo destino. Il processo è stato rinviato a giovedì prossimo per l'esame, a Milano, del pentito Monticciolo, mentre l'interrogatorio di Ciancimino proseguirà il 3 marzo nell'aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo.

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