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Nell'Aula bunker imputati in gabbia e Falcone disse: "Abbiamo vinto"

PALERMO. «Papa, abbiamo vinto!». Giovanni Paparcuri compirà 60 anni il mese prossimo ma è in pensione dal 2009: è saltato in aria in via Pipitone Federico, è stato dentro l’inferno della Beirut palermitana, straziata dalla strage Chinnici, ma ha fatto ritorno su questa terra. Poi non si è tirato indietro, ha vissuto la stagione eroica dell’antimafia di prima linea, zero o pochissime manifestazioni e nottate insonni a copiare, trascrivere, catalogare gli atti processuali. Giovanni Falcone lo aveva voluto con sé come persona di estrema fiducia, per un lavoro di enorme delicatezza, ad esempio trascrivere i verbali segretissimi dei pentiti, appena scritti a mano dal giudice, e renderli rintracciabili in un data base creato proprio da Paparcuri.

E così, la sera del 16 dicembre 1987, fu a «Papa» che Falcone comunicò per primo la «vittoria». «Poche volte — ricorda con un filo di commozione l’ex autista, retrocesso a commesso dopo essere sopravvissuto al tritolo mafioso — l’avevo visto così soddisfatto, rilassato, con un sorriso di felicità stampato sul volto. Aveva chiuso il telefono con qualcuno che era al bunker, forse Piero Grasso, che gli aveva spiegato la sentenza appena emessa al maxiprocesso. “Abbiamo vinto”, mi disse, dopo avermi chiamato come usava lui quando doveva affibbiarmi qualche camurria: “Papa”. Invece quella volta non era una camurria. Aveva vinto: il suo impianto accusatorio aveva retto in pieno».
Lunedì 10 febbraio 1986 le Brigate rosse uccisero l’ex sindaco di Firenze Lando Conti, il vicesegretario del Psi Claudio Martelli minacciava la crisi del governo guidato da Bettino Craxi, per le nomine alla Rai, un bambino di 15 mesi ricevette un cuore nuovo e il trapianto fu opera di un cardiochirurgo che si chiamava Carlo Marcelletti.
Lunedì 10 febbraio 1986 a Palermo faceva freddo e pioveva e Cosa nostra finì alla sbarra dentro l’astronave verde: l’aula bunker del carcere dell’Ucciardone, costruita in tempi record, con una spesa di 40 miliardi delle vecchie lire, ospitò la prima udienza del processo fortemente voluto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, autori dell’ordinanza-sentenza «Abbate Giovanni+706».

I due giudici istruttori, nell’estate 1985, dovettero sospenderne la stesura e furono costretti a riparare all’Asinara, per il pericolo di un attentato a Palermo. Poi lo Stato, incredibile ma vero, chiese loro il conto di quel soggiorno e per fortuna non insisté con i familiari, dopo che i due giudici furono uccisi. Mentre la burocrazia, ottusa, lenta ma inesorabile, seguiva il suo corso, la mafia aveva infatti presentato il conto a modo suo.
C’erano più giornalisti che imputati presenti, alla prima udienza del processo che poi — fatti salvi morti e prosciolti — diventò «Abbate Giovanni+474», trent’anni fa.

Un clima di attesa e di speranza, ma anche di curiosa diffidenza accompagnò quelle prime battute: lo Stato aveva deciso di giocare la partita più difficile e Falcone si era speso per un giudizio unico, cumulativo, il «processone», come lo chiamava il cardinale Salvatore Pappalardo, in quel periodo al centro di critiche per una presunta timidezza nella lotta a Cosa nostra, dopo gli anni di Sagunto. Un giudizio da celebrare a Palermo e con giudici siciliani, nonostante i pericoli concreti per la sicurezza e per l’ordine pubblico. Ma la mafia non osò l’inosabile.
A presiedere la corte d’assise fu chiamato un giudice di 57 anni che, a parte una dozzina d’anni agli esordi di una carriera allora già trentennale, era stato sempre al civile. E anche se Alfonso Giordano era stato tra i pochissimi ad accettare, mentre tanti suoi colleghi si tiravano indietro con le scuse più disparate, ancor oggi ricorda gli ostacoli che incontrò al Csm.

Il giudice a latere era Piero Grasso, appena 41enne, già pm titolare delle indagini sull’omicidio di Piersanti Mattarella. Il collegio era composto anche dai giudici popolari, tre uomini e tre donne, e poi c’era la corte di riserva: mai visto prima, col presidente supplente Claudio Dall’Acqua e il «secondo» giudice a latere, Antonio Prestipino, più sei giurati uomini e quattro donne. Tutti erano pronti a subentrare, in caso di defezione «per qualsiasi causa». Tutti seguirono le udienze, dalla prima alla 349ª e ultima, ma in camera di consiglio, per i 36 giorni che cambiarono la storia della lotta alla mafia, entrarono solo i titolari.
All’organizzazione criminale più pericolosa del mondo occidentale lo Stato rispose con l’organizzazione, il rigore e la precisione e con 19 ergastoli, 2665 anni di carcere, 114 assoluzioni. L’evento fu anche mediatico e lo scrittore e regista Aldo Sarullo, che gestì la macchina della Rai, dovette inventarsi qualcosa di mai visto.

I momenti più importanti del processo furono rappresentati dalla deposizione di Tommaso Buscetta, che fece piombare sull’astronave un silenzio glaciale, assoluto, attento. E poi l’improvvida sfida di Pippo Calò, il cassiere della mafia, che volle il confronto, da lui perso malamente. «Dovevo farli vedere entrambi — ricorda Sarullo — ma erano in angoli diversi. Usai allora la “tendina”, affiancando le immagini. Subito squillò il telefono dalla regia centrale: “Non siamo al varietà, la tolga!”. Ma io andai avanti. Ebbi ragione».

Sarullo rischiò poi di provocare addirittura una crisi internazionale: «Buscetta non si doveva riprendere, perché gli americani non volevano. Io però avevo messo una telecamera fissa e così avemmo le sue immagini attorniato dai carabinieri. Dovevano servire per il futuro, invece l’inviato del Tg2 le usò e il presidente Giordano se la prese, mi convocò e mi disse che non sarebbe dovuto succedere più». Ma ormai era successo e l’incedere tranquillo di Buscetta verso il pretorio, nel silenzio totale del bunker, fu il preludio della batosta per Cosa nostra.

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