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Violante: in troppi casi l'antimafia usata per fare carriera

Luciano Violante

PALERMO. Antimafia da ribalta al capolinea. Carrierismi ormai nudi come qualsiasi re senza corona. Con buona pace «sia degli antimafiosi per autodefinizione sia di certe versioni del correntismo in seno all’autogoverno della magistratura che privilegino il dibattito interno per ottenere posti, visibilità e ruoli, anziché una sana dialettica democratica tesa alla crescita complessiva della funzione giudiziaria». Ambedue gli aspetti, secondo il presidente emerito della Camera dei Deputati, Luciano Violante — fra l’altro ex magistrato nel Piemonte scosso dal terrorismo negli anni ‘70 — «contrassegnati da evidenti anacronismi e penalizzati da un’esigenza fondamentale: quella di condurre la magistratura a una riforma che prenda le mosse “da dentro”, e che sia fatta più di comportamenti individuali e generalizzati che di regole o, al peggio, compromessi». Violante è intervenuto all’incontro, ieri e oggi nell’aula magna della Corte d’Appello di Palermo, a Palazzo di giustizia, L’attualità dell’esperienza e del pensiero di Giovanni Falcone: Giustizia, autogoverno e ruolo del magistrato, per il ciclo organizzato dalla Scuola superiore della Magistratura.

Presidente, partiamo proprio dal seminario, in concomitanza con il trentennale della conclusione del maxiprocesso a Cosa nostra. L’istruzione di quel processo e il giusto omaggio a Falcone e Borsellino: fiumi di parole o gocce di esperienza che la tecnica investigativa e giurisdizionale eredita davvero?
«Realismo, voglia ed esperienza di giustizia audace che vuole andare subito ai fatti. È quello che ho visto e ascoltato a Palermo in queste ore. Se questa è la prefazione della lezione di Falcone, il resto è la consapevolezza ormai solida che nel contrasto alle mafie la struttura criminale va integrata con quella finanziaria. E senza quegli spunti che io da sempre chiamo falconismi, cioè il parlare di Falcone senza Falcone. Recepire e attualizzare l’esperienza di quegli anni è, appunto, un dato di realtà e di tecnica investigativa. Le indagini si fanno sui fatti e sui loro collegamenti reciproci, quelli meramente criminali e quelli economici o finanziari con rilevanza penale».

Realismo. Cosa pensa di quello invocato pure da insigni giuristi nel considerare il profilo processual-penalistico dei presunti negoziati fra pezzi delle istituzioni e organizzazioni criminali dopo la stagione delle stragi? Impianto accusatorio vulnerabile?
«Con il processo in corso non è possibile fare valutazioni definitive, ma non è né sorprendente né tantomeno inedito supporre che siano intercorse trattative, o contatti, di polizia. Non sarebbe la prima volta né costituirebbe motivo di stupore. Non ho elementi riguardo alla eventualità che il rapporto sia sconfinato in ambito politico-istituzionale».

Soltanto ieri, il guardasigilli Andrea Orlando ha detto senza giri di parole che «certa antimafia non funziona più» e che «è finito il tempo delle autoattribuzioni e delle patenti di antimafiosità», sottolineando il ruolo e le prese di posizione di magistrati come il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi verso l’«antimafia di facciata» o la presidente della Corte d’appello di Firenze Margherita Cassano contro i processi ultramediatici.
«Orlando ha detto bene. In molti, troppi casi l’antimafia solo sedicente si è tradotta in costruzione di carriere. Anche io ho apprezzato le dichiarazioni di Lo Voi. L’importante è aver denunciato apertamente ciò che per anni è accaduto. Anche sulla necessità di interrompere i rapporti troppo stretti, se devianti, con i media, concordo pienamente. La magistratura si rinnova con i comportamenti individuali e collettivi dei propri componenti».

Sempre secondo Orlando, la vera riforma della Giustizia e del processo penale «si sta materializzando dentro la magistratura più che in Parlamento, ne è prova proprio l’ascesa di quei giudici controcorrente che il Csm non ha lasciato soli». E ha parlato del ruolo delle correnti, in testa Magistratura democratica, che le scelte di riforma del governo critica spesso apertamente. Qual è il suo punto di vista?
«Le correnti in seno al Consiglio superiore della magistratura hanno svolto in passato un ruolo fondamentale come strumento di moderazione, formazione professionale e anche di proposta. Un ruolo che io non vedo più come preminente, spesso vittima del ripiegamento su questioni “intermedie”, di carattere più interno, fino ad avallare o diventare esse stesse espressioni di puro potere più che sede di contributo a una discussione professionale sulle idee. È un rischio che va evidenziato e contrastato».

Un ripiegamento condizionato dalla fine delle contrapposizioni con la politica che hanno caratterizzato la stagione e le legislature precedenti?
«Il clima e i rapporti sono evidentemente mutati. La magistratura allora doveva difendersi e lo ha fatto, talvolta bene, tal altra male. Ma doveva farlo. Ora non è più necessario, perciò ci si può concentrare sui cambiamenti veri. La riforma sia una autoriforma nei comportamenti e nell’attenzione ai fatti».

Alla luce della sua esperienza di contrasto al terrorismo politico, come legge la preclusione alla presenza degli ex brigatisti Adriana Faranda e Franco Bonisoli a un incontro di formazione della Scuola di magistratura a Roma? I promotori hanno sollevato istanze di «giustizia riparativa».
«Se si voleva la presenza di un assassino, allora meglio invitare un omicida comune, non terroristi condannati. La giustizia riparativa riguarda e presuppone un rapporto, e un difficile cammino, fra vittime — o loro congiunti — e carnefici. Qui mi pare che a insorgere siano stati innanzitutto molti parenti di vittime delle Br. Non si dispone di uno spazio pubblico senza questi presupposti indispensabili».

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