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Plebani: "In fuga dallo Stato Islamico chi non è sunnita"

«Il virus-Isis emerge prepotentemente in Siria e Iraq. La tragedia delle comunità cristiane e yazide è stata ben documentata, ma anche shabak e altri gruppi minori hanno dovuto pagare a caro prezzo la loro appartenenza religiosa». Andrea Plebani, docente di Storia delle Civiltà e delle Culture Politiche alla Cattolica di Brescia e ricercatore dell’istituto di studi Ispi, sottolinea come il "deserto delle religioni" stia crescendo nei 200 mila chilometri quadrati dello Stato Islamico. Che un tempo furono di Iraq e Siria.

O sunniti, o morti. È questo il credo del Califfato?
«Se la persecuzione degli yazidi si è tradotta in un nuovo esodo che rischia di dimezzare il peso specifico delle sue diverse realtà, gli altri sono stati oggetto di un attacco che ne ha messo in dubbio la stessa ragion d'essere. Non va sottovalutato, però, il forte attaccamento palesato da queste minoranze ai loro territori ancestrali. Torneranno, se ne avranno la possibilità».

Islam «contro». La comunità sciita sopravvive alla marea nera dell’Isis?
«Senza alcun dubbio. Gli sciiti sono ben radicati nella regione mediorientale, all’interno della quale costituisce quasi la metà della popolazione islamica. A livello globale le cifre cambiano notevolmente. In Iraq, in particolare, essa rappresenta la maggioranza della popolazione e appare fortemente radicata nelle province centrali e meridionali, sebbene comunità curdo-sciite e di sciiti turcomanni siano presenti anche a nord, spesso in aree contese tra fazioni differenti. Dal 2003 in avanti la presidenza del consiglio dei ministri, la carica più importante del sistema politico-istituzionale iracheno, è stata assunta da rappresentanti di questa comunità, il cui peso specifico è aumentato esponenzialmente in seguito alla caduta di Saddam Hussein. In Siria la situazione è differente».

Cioè?
«La comunità alawita, assimilata al credo sciita, è da sempre minoritaria e radicata in particolar modo lungo le coste mediterranee, a Latakia e nell’area di Damasco. Nonostante tale situazione, essa ha assunto un ruolo determinante negli equilibri siriani con Hafiz al-Assad e, poi, con suo figlio Bashar. La sua posizione minoritaria e il suo forte sostegno al regime siriano, percepito come unico bastione in grado di proteggerla da gruppi estremisti di matrice sunnita, ne fanno un attore chiave dell'attuale panorama politico e di sicurezza del Paese».

I cristiani in Siria erano un milione750 mila nel 2011, oggi sono poco più di un milione. Chi non è fuggito dallo Stato Islamico, sarebbe tollerato ma costretto a pagare. Tra le entrate del Daesh, quindi, spicca pure una «tassa sull'infedele»?
«La posizione della comunità cristiana in Siria è fortemente segnata dall’ascesa di gruppi terroristici che non hanno esitato a massacrarne i membri e a dissacrarne i luoghi sacri. Questo ha provocato un esodo tanto in aree più sicure del Paese, spesso controllate da forze vicine al regime di Bashar al-Assad, quanto all’esterno della Siria. Per quel che ci è dato sapere, nei territori occupati dal sedicente Stato Islamico la comunità cristiana è stata completamente sradicata, i suoi membri soggetti a minacce, vessazioni e discriminazioni tali da rendere impossibile la loro sopravvivenza all’interno dell'autoproclamato Califfato. L’imposizione di tasse "di protezione", talmente alte da risultare impagabili, è stato uno degli strumenti usati da Daesh per spingere i cristiani ad abbandonare le loro case».

La «Hishab», la polizia del Califfato, ha annunciato di avere scoperto a Raqqa nei mesi scorsi una «cellula eversiva» all’interno della stessa organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi. Esiste davvero un dissenso nel Daesh?
«Un certo grado di dissenso esiste all’interno dei ranghi del Califfato. Non è evidente dato che la sedizione è punita con la morte immediata, ma è comprovata dalle storie di coloro che sono fuggiti da IS dopo averne fatto parte. Numeri ancora ridotti, ma che potrebbero crescere col passare del tempo. E poi ci sono numerosi attori locali e di matrice tribale che hanno dovuto sottostare all'ascesa del gruppo, ma i cui obiettivi e interessi differiscono notevolmente da quelli di al-Baghdadi».

Anche il presidente russo Putin ha recentemente paragonato Abu Bakr al-Baghdadi a Hitler. Come ai tempi dei nazisti, esiste in «Siraq» una resistenza?
«Non nel senso che diamo solitamente al termine. Esistono attori fortemente ostili a IS. Pensiamo al governo iracheno e iraniano, alle milizie curde attive sia in Siria che in Iraq, così come alle milizie sciite irachene e a Hezbollah, o a diversi attori tribali tutt’altro che felici di sottostare al controllo di al-Baghdadi. Vi è poi la complessa posizione di Bashar al-Assad che di certo non è un estimatore di IS, ma che vede nel sedicente califfato una straordinaria arma propagandistica e di legittimazione interna e internazionale».

Un territorio grande quasi come l'Inghilterra, stime contrastanti sulla popolazione. Possibile fornire una cifra sugli abitanti dello Stato Islamico e descriverne le condizioni di vita?
«Non esistono stime attendibili sulla popolazione che vive all'interno dei territori occupati da Isis in Siria e Iraq. La forbice va da 6 a 2 milioni. Sono stime, però, che lasciano il tempo che trovano, soprattutto alla luce dell'elevato numero di profughi che hanno abbandonato le loro case e di cui si hanno informazioni frammentate».

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