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Il coraggio di papa Bergoglio, maestro e testimone tra gli ultimi

È ancora presto per tracciare un bilancio complessivo del viaggio di Papa Francesco in Africa. Quello che si può dire fin da ora, però, è che la sua visita in Kenya e in Uganda, destinata a concludersi oggi, a Bangui, nella Repubblica Centrafricana – uno dei Paesi del continente più disastrati dalle guerre intestine -, con l’apertura solenne e anticipata del Giubileo della misericordia per l'Africa, rientra a pieno titolo nella logica di un pontificato che ha puntato fin dall’inizio sul coraggio di spingersi nelle periferie esistenziali e sul recupero di ciò che la spietata società neocapitalista considera «scarto».

L’Africa è un continente dove la Chiesa conta duecento milioni di fedeli e cresce a ritmi sostenuti. Ma è anche il continente che sperimenta sulla propria pelle le più tragiche contraddizioni. Qui quella «terza guerra mondiale combattuta a pezzi» denunciata da Francesco, infuria da decenni, non più in nome delle grandi ideologie, come nel secolo scorso, ma soprattutto per gli interessi economici legati alle immense risorse naturali del territorio africano e anche per l’avidità delle grandi potenze che, sfruttando odi etnici e rivalità locali, alimentano in molte zone del continente, servendosi spesso di milizie mercenarie, una conflittualità permanente e sanguinosa, di cui pagano il prezzo, come sempre, i più poveri.

Già nei messaggi rivolti alla vigilia della sua partenza, papa Bergoglio aveva dichiarato che il senso del suo viaggio era di favorire «il dialogo interreligioso per incoraggiare la coabitazione pacifica». «Stiamo vivendo in un tempo», aveva scritto, «in cui i credenti delle religioni e le persone di buona volontà ovunque sono chiamati a promuovere la comprensione e il rispetto reciproci e a sostenersi gli uni gli altri come membri della nostra unica famiglia umana. Tutti noi, infatti, siamo figli di Dio». Parole cariche di significato, in un contesto di violenza e di paura quale quello creatosi con le stragi di Parigi e le minacce dell’Isis.

Molti avevano considerato questo viaggio una follia. Ma Francesco ha voluto dimostrare che la sincera fratellanza evangelica non deve temere nessuna minaccia. E l’ormai famosa risposta, a chi gli chiedeva se non temesse il terrorismo - «a dire il vero temo di più le zanzare» - voleva sottolineare la serenità con cui egli intraprendeva questa avventura.

La chiave per comprendere un simile atteggiamento si può trovare nel discorso fatto dal Papa durante la celebrazione eucaristica per i martiri dell'Uganda, a Namugongo, nel cinquantesimo anniversario della canonizzazione di San Carlo Lwanga e dei suoi 21 compagni, bruciati nel 1886 a causa della loro conversione al cristianesimo: «La testimonianza dei martiri mostra a tutti coloro che hanno ascoltato la loro storia, allora e oggi, che i piaceri mondani e il potere terreno non danno gioia e pace durature. Piuttosto, la fedeltà a Dio, l'onestà e l'integrità della vita e la genuina preoccupazione per il bene degli altri ci portano quella pace che il mondo non può offrire». Il cristiano non arretra di fronte a nessuna minaccia, quando è in gioco la sua fede, non perché non abbia paura – ne ha e come! – , ma perché confida nel suo Dio e sa che nessun compromesso col potere e con gratificazioni mondane potrebbe mai dagli la pace e la gioia che Lui solo sa dare.

Questo impegno, peraltro, non è autoreferenziale, ma si propone «il bene degli altri». A questo proposito il pontefice, ricordando altri quattro martiri ugandesi, ha raccomandato ai catechisti ugandesi: «Dovete essere maestri e anche testimoni». Sull’inscindibilità di questo binomio si sta giocando tutto il magistero di Francesco, impegnato a trasmettere alla comunità cristiana una nuova cultura non solo con le parole ma anche con gesti concreti.

E di una nuova cultura ha bisogno non solo Africa, ma anche l’intero sistema mondiale, che è intimorito dal terrorismo, ma lo produce e lo rafforza mantenendo logiche di sfruttamento e di prevaricazione. «L'esperienza dimostra» - ha detto Francesco appena arrivato a Nairobi, prima tappa del suo percorso, con implicito riferimento anche alle ultime stragi di Parigi - «che la violenza, il conflitto e il terrorismo si alimentano con la paura, la sfiducia e la disperazione, che nascono dalla povertà e dalla frustrazione».

Perciò, intervenendo nella sede dell'Onu a Nairobi, ha fatto riferimento all'incontro internazionale sul clima, che sta per iniziare a Parigi, dicendo di sperare che «porti a concludere un accordo globale e trasformatore» per «la riduzione dell’impatto dei cambiamenti climatici e la lotta contro la povertà», senza far prevalere gli «interessi privati» sul bene comune. Il che, ha aggiunto, sarà possibile solo se si eviterà «qualsiasi tentazione di cadere in un nominalismo declamatorio con effetto tranquillizzante sulle coscienze».

Il punto è, ha sottolineato, che bisogna «mettere l’economia e la politica al servizio dei popoli e dell’essere umano». Ma, per realizzare questo cambio di rotta, serve «un processo educativo che promuova nuovi stili di vita», un «nuovo stile culturale», facendo crescere in tutti «l’assunzione di una cultura della cura: cura di sé, degli altri, dell’ambiente».

Francesco non è un illuso. Sa bene che la sua enciclica Laudato si’, dedicata all’ecologia in un senso ampio, inclusivo dell’ambiente naturale e dei poveri del pianeta, nei mesi scorsi è stata salutata da forti critiche di ambienti americani (e non solo) vicini agli interessi petroliferi, critiche rilanciate da esponenti repubblicani di primo piano. Ma, se ha ripreso questo tema nel suo viaggio in Africa, è perché la devastazione sistematica, a cui la natura e la gente di questo continente sono sottoposti, può essere fermata solo da una svolta a livello mondiale. Ha ragione, ma è quasi solo. Non ci resta che sperare che il Signore protegga questo pontefice coraggioso. E non solo dalle zanzare.

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