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Bennato: "I jihadisti usano i social media, ma così chi indaga può monitorarli"

Abbiamo appena cominciato a riconoscere il significato di «terrorismo 2.0» e già qualcuno parla di "Califfato 3.0".
Ma non Davide Bennato, docente di Sociologia dei media digitali all'Università di Catania, che non vede salti di qualità nei meccanismi di seduzione usati dalla macchina propagandistica dell' Isis: «Qualunque sia la loro comunicazione - afferma Bennato questa funziona solo se io voglio farmi convincere, se io credo nei valori che essa veicola: guerra, violenza, impossibilità di dialogo. Se tale desiderio non c'è, l' unica reazione sensata ai messaggi terroristici è il disgusto».

In queste ore, le autorità del Belgio hanno chiesto «silenzio» a utenti dei social network e mezzi di informazione sui luoghi dove sono in corso blitz antiterrorismo della polizia. Sorpreso?
«Mi sorprende solo perché si tratta di un atto ufficiale da parte di una istituzione che chiede la collaborazione diretta dei propri cittadini. Questo, secondo me, è interessante da vari punti di vista.
In primo luogo perché nella battaglia della comunicazione contro il terrorismo, i singoli cittadini sono stati chiamati a collaborare da una autorità pubblica. È stato loro riconosciuto un ruolo importante in questa lotta, evitando di fornire involontariamente informazioni ai terroristi».

Appello raccolto?
«E stata molto bella la reazione dei cittadini i quali non solo non hanno contravvenuto alla richiesta, ma hanno anche praticamente "invaso" Twitter con foto di gattini proprio per mostrare che, seil terrorismo vuole diffondere l' insicurezza, loro rispondono con messaggi ironici e divertenti a testimonianza che non si vuole cedere a questa strategia della paura».

Quindi?
«Questa richiesta mostra che i social media possono essere uno strumento eccezionale per dar vita ad un patto comunicativo fra governo e cittadinanza che uniscono le loro forze per un obiettivo comune. Dal mio punto di vista, da oggi in poi la richiesta di collaborazione ai cittadini at traverso lo strumento dei social media sarà sempre di più una strategia utilizzabile anche da altri governi per una causa condivisa come può essere la lotta al terrorismo».

Dopo la strage di venerdì 13 a Parigi, s' è persino diffusa la notizia che il commando jihadista abbia usato la PlayStation per scambiarsi messaggi in tutta sicurezza. Possibile, davvero?
«In realtà questa notizia, per quanto affascinante e in grado di colpire l' immaginazione, è frutto di un enorme fraintendimento, tanto da essere stata rettificata dallo stesso giornalista di Forbes che l' ha diffusa. Però, il fatto che sia circolata con enorme rapidità sia attraverso la stampa che i social media, la dice lunga su come ci sia il sospetto che i videogiochi abbiano avuto un ruolo negli attacchi di Parigi, anche se non è ben chiaro quale. Secondo me, è la tradizionale demonizzazione dei videogiochi declinata da un nuovo punto di vista».

È certo, però, che il Daesh cerchi reclute tra donne e ragazzi usando App e filmati ispirati a popolari videogiochi come «Grand Theft Auto». Funzionano?
«Sì. Una delle caratteristiche dei videogiochi è che per poter essere fruiti bisogna entrare dentro una storia, far proprio il punto di vista del protagonista, accettare le regole di funzionamento del gioco. In pratica bisogna accettare l' ideologia del gioco, per quanto simulata e comunque "finta". Bisogna dire però che non basta un videogioco a trasformare una persona in un terrorista dell' Isis, così come non basta giocare a Gran Theft Auto per diventare un delinquente con obiettivi illegali. Serve un sistema di valori condiviso, e i videogiochi possono essere utili per rafforzare, ma non per convertire al messaggio terroristico».

Due ricercatori americani, Berger e Morgen, hanno contato 46 mila account di jihadisti su Twitter. Una marea (nera) del tutto incontrollabile?
«Che l' Isis sia piuttosto attivo nei social media e su Twitter in particolare non è una novità. Il terrorismo ha bisogno di un imponente apparato di comunicazione per diffondere il suo messaggio politico e raggiungere l' obiettivo che si prefigge, ovvero diffondere paura e la sensazione di insicurezza diffusa. C' è da dire che l' uso di questi strumenti ha due conseguenze».

Quali?
«La prima è che è possibile monitorare le conversazioni digitali dei sostenitori del terrorismo e studiarne le reti di relazione e altre informazioni utili all'intelligence. La seconda conseguenza è che le compagnie di social media possono decidere di oscurare questi spazi, come è stato fatto da Twitter qualche tempo fa e che è valsa a Jack Dorsey una scomunica da parte dell' Isis».

Se Facebook e i suoi "fratelli" rimuovono i proclami, lo Stato Islamico trova nuove piattaforme. Una si chiama Telegram, altre Kik o Whisper. Cosa cambia?
«Succede che cambiando piattaforma alla ricerca di uno spazio più sicuro e meno tracciabile, si innesca una reazione da parte dei servizi di intelligence e dalle corporation proprietarie dei social media. È la classica situazione del gatto col topo: un costante inseguimento sugli spazi digitali in attesa di un risultato da una delle due parti».

Il Dipartimento di Stato Usa ha lanciato una campagna con hashtag #daeshdefector per diffondere i racconti dell' orrore di chi ha abbandonato le milizie del califfo. Può servire?
«Assolutamente si. Il terrorismo è essenzialmente una guerra di comunicazione. Pertanto tutte le attività volte a confondere, diffondere messaggi alternativi, raccontare i successi degli Stati contro questi gruppi estremisti sono di grande aiuto. La vera arma del terrorismo è usare la propaganda per dipingere un mondo in bianco e nero. Tocca all'apparato comunicativo anti -terroristico spiegare che il mondo è fatto anche di sfumature di grigio in cui l' islamismo può convivere con altre culture».

Facile far passare per vera la realtà virtuale, manipolata dai "registi" dell'Isis. Giovanissimi, e non solo, indifesi di fronte a questa offensiva mediatica?
«Nessuno è veramente indifeso davanti alla comunicazione. Le menti critiche si pongono domande sulle notizie che fruiscono e controllano la bontà delle fonti per verificarne l'attendibilità. Le menti meno critiche, purtroppo, preferiscono accettare acriticamente il punto di vista veicolato da una qualsiasi forma di propaganda.

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