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Mafia, Caselli: in Sicilia luci e ombre, fra gli ossequi ai boss e la ribellione al pizzo

Una vita dedicata alla giustizia e sempre nei punti più caldi. Spesso al centro di polemiche, Gian Carlo Caselli, da magistrato, ha contribuito a smantellare il terrorismo «rosso», ma ha anche inferto nella sua lunga carriera, duri colpi a Cosa nostra - Totò Riina venne arrestato nel giorno stesso del suo insediamento a capo della Procura di Palermo nel '93 - e ha pure inquisito politici potentissimi, come Giulio Andreotti. Di cose da raccontare ne ha tante e le ha ora fatte confluire in un libro (edito da Piemme), scritto con il giornalista Mario Lancisi, e dal titolo eloquente, Nient' altro che la verità.

Il sottotitolo parla di «misteri, calunnie ed impunità», a cosa si riferisce?
«Le calunnie sono gli attacchi ingiustificati che ho dovuto subire durante tutto il mio percorso e che sono culminati nella legge contra personam, dichiarata poi incostituzionale, per impedirmi di partecipare al concorso per la Procura nazionale antimafia, solo perché avevo osato processare Andreotti. Poi sono stato accusato di varie nefandezze, come quelle scritte sui muri in relazione alle inchieste sulle violenze di alcuni No Tav, "Caselli torturatore", "Farai la fine di Moro", persino "Caselli mafioso". Le impunità, come gli attacchi gratuiti, si sono verificate tutte le volte che la ricerca della verità ha toccato soggetti ed interessi che non ne vogliono sapere di essere uguali agli altri davanti alla legge. Come un riflesso pavloviano ecco che incredibilmente, per ottenere l' impunità del politico di turno, il magistrato viene accusato lui di fare politica».

Tra i misteri c'è senz'altro quello legato alla mancata perquisizione del covo di Riina. Il processo si è concluso con delle assoluzioni, ma ad oggi non sappiamo cosa accadde allora e perché. Lei che idea si è fatto? A chi poteva giovare quel mancato intervento?
«È una vicenda grave e difficilmente inquadrabile e non voglio dire cose di cui non sono sicuro. La Procura da me diretta voleva intervenire, ma il Ros dei carabinieri chiedeva più tempo per non pregiudicare altre indagini. Il risultato è noto (il covo venne ripulito prima che gli inquirenti ci entrassero, ndr) e, per usare un eufemismo, ci sono state in dubbiamente delle disfunzioni. Per noi fu una mazzata, ma ci permise di essere più coesi e questo ci è servito per infliggere tra l' altro 650 ergastoli».

Nella sua vita ha incontrato amici e nemici. Chi sono?
«Per sintetizzare, gli amici sono tutti i colleghi e gli espo nenti delle forze dell' ordine coi quali ho condiviso anche pane amaro lavorando. Molti hanno perso la vita per questo mestiere. Non ho nemici, ma sono stato attaccato spesso ingiustamente. Ricordo l' accusa vergognosa, senza alcun fondamento, di essere stato il mandante dell' omicidio di padre Pino Puglisi, formulata da Vittorio Sgarbi. E poi la legge contra personam di cui ho già detto».

Prima di arrivare a Palermo ha contribuito allo smantellamento delle Br e di Prima Linea. Coi fatti di Parigi, diversi analisti fanno dei parallelismi tra il terrorismo degli anni '70 e le follie odierne. Cosa ne pensa?
«Sono mondi ontologicamente diversi, tant' è che il Papa parla oggi di "pezzi di una terza guerra mondiale". I nostri "anni di piombo" possono insegnarci però qualcosa che andrebbe applicato anche ora a livello internazionale: abbiamo sconfitto il terrorismo resistendo alla tentazione di reagire come volevano i terroristi, cioè con sistemi propri di uno Stato autoritario. Ugo La Malfa allora arrivò a chiedere la pena di morte per i terroristi, ma siamo riusciti a non praticare scorciatoie».

Lei ha arrestato Riina. Qualche giorno fa a Palermo è finito in cella, trai saluti ossequiosi della folla, Salvatore Profeta, presunto boss della Guadagna. È cambiata Cosa nostra e, se sì, come?
«Non ho più elementi di conoscenza diretta, ma direi che il quadro è fatto di luci ed ombre. Se continuano le manifestazioni di solidarietà per un boss arrestato è un segnale negativo, ma dall'altro lato, in senso positivo, c' è la mobilitazione a Bagheria contro pizzo e prepotenza mafiosa. C' è chi continua a battere le mani al boss, ma ci sono anche imprenditori che collettivamente si ribellano. Pensiamo anche alla scomunica della mafia da parte del Papa. Ricordiamoci che nel '92, con le stragi, sembrava non ci fosse più nulla da fare contro Cosa nostra. Invece abbiamo resistito».

L' ala militare di Cosa nostra ha subìto duri colpi, ma sul fronte del suo potere economico, anche al Nord, molto resta da fare...
«Non bisogna cadere nel solito errore, facendo delle mafie un problema di ordine pubblico e affermando che se non ci sono omicidi, la mafia sia sconfitta. La mafia e oggi soprattutto la 'ndrangheta è un sistema di potere economico. La chiave di lettura dell' espansione al Nord - che non deve stupire- è il riciclaggio, la necessità di fare investimenti per ripulire il denaro, cercando luoghi in cui i soldi possano confondersi coi normali flussi finanziari. L' illegalità ci costa tantissimo: 120 miliardi di evasione fiscale, 60 per la corruzione e 150 legati all' economia mafiosa. È una rapina con la quale ci vengono sottratte risorse per il futuro. Ogni recupero di legalità equivale quindi a una miglior qualità della vita».

Lei è il «grande accusatore» di Andreotti, ma anche di altri potenti politici, come Marcello Dell' Utri e Calogero Mannino. Pensa che oggi la zona grigia, quel la delle collusioni tra mafia, politica ed economia, venga perseguita efficacemente?
«Le indagini ci sono e ritengo siano incisive ed efficaci. Ciò che manca in Italia è una politica che sappia trarre le conseguenze, che non aspetti la sentenza definitiva per neutralizzare le mele marce. Non c' è solo la responsabilità penale, ma anche quella morale».

Ha avuto mai modo di incontrare Andreotti fuori dalle aule di giustizia?
«Mai. L' unico contatto è stato uno scambio sul Corriere della Sera nel 2007, quando lui, riferendosi al suo processo definì i giudici come gli "impertinenti, gli impuniti o anche i figli della gobba, figli di...". Parole inaccettabili alle quali replicai con un articolo. Null'altro».

Mannino, assolto dopo anni di processo per concorso esterno- inchiesta da lei imbastita- ora è stato anche assolto da uno stralcio del processo sulla trattativa tra Stato e mafia. Ha dichiarato di sentirsi vittima di una «persecuzione giudiziaria». Cosa risponde?
«Ne parlo anche nel libro e in tempi non sospetti, visto che l' esito del secondo processo ancora non c' era. Non c' è stata alcuna persecuzione giudiziaria, il processo per concorso esterno è stato controverso e lungo. È un dato di fatto, però, che la Cassazione abbia cambiato, a processo in corso, il suo orientamento su questo tema, alzando l' asticella. Se prima bastava la prova del "patto scellerato" con la mafia, poi è stata richiesta pure la prova del ritorno ottenuto dall' imputato, che nel caso di Mannino, secondo i giudici, non è stata raggiunta».

Il processo Mannino è durato più di 20 anni. Lei ha dedicato la sua vita alla giustizia, quali sono i mali che la affliggono e quali potrebbero essere i rimedi?
«Nel libro ne parlo e senz' altro uno dei mali è la durata interminabile dei processi. Quando nel '89 siamo passati al rito accusatorio, abbiamo tenuto in piedi la pluralità di gradi di giudizio che questo rito non dovrebbe prevedere. Siamo poi l' unico Paese in cui la prescrizione non si interrompe mai. Si potrebbe eliminare il giudizio d' appello, secondo me, ed interrompere la prescrizione almeno dopo il primo grado. Si può fare a costo zero e in poco tempo, forse manca la volontà».

Lei è stato definito come un magistrato scomodo. Si è spesso fatto riferimento nel suo caso ad un presunto protagonismo che spingerebbe alcuni pm a ricercare, più che la verità, il clamore mediatico per fare carriera...
«Occorre distinguere l' essere protagonista dal protagonismo. Se si fanno inchieste di grande rilievo mediatico si finisce per diventare protagonisti anche senza volerlo. Io ho fatto il mio dovere e mi dica lei quale carriera ho fatto? Quella che mi ha impedito di diventare Procuratore nazionale antimafia? Proprio questo fatto, peraltro, mi rende in parte orgoglioso: è un riconoscimento alla mia indipendenza».

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