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Fotovoltaico, il gruppo Cappello resiste alla crisi e trova mercato in giro per il mondo

PALERMO. Guardandosi attorno, tutto si può immaginare tranne che in Sicilia sia possibile fare impresa in un comparto tecnologicamente avanzato e resistere anche alle più gravi avversità del mercato nazionale. È quello che succede al Gruppo Cappello di Ragusa che, dopo essere entrato nel raggruppamento dei 30 produttori italiani di pannelli fotovoltaici, è riuscito a restare tra le dieci industrie sopravvissute, dopo la moria che ha travolto il 70% dei produttori italiani.

Qual è il segreto? «Ricerca, sviluppo e diversificazione produttiva»; è la ricetta che illustra Giorgio Cappello che, dell’omonimo Gruppo, è l’amministratore delegato. Il tutto ovviamente condito da una robusta dose di lavoro e di perseveranza; né potrebbe essere altrimenti in una regione come la nostra dove le banche si ostinano a chiedere la fidejussione sui beni personali anche ad un’impresa solida, capitalizzata e con cinquant’anni di storia alle spalle. Né potrebbe essere altrimenti in una terra dove le condizioni degli assi viari sono al limite della praticabilità. Né potrebbe essere altrimenti in un’Isola dove, per raggiungere l’aeroporto di Catania, partendo appunto da Ragusa, bisogna prendere un treno alle 7,51 per arrivare alle 11,34; come dire 3 ore e 43 minuti per 85 chilometri di percorrenza, alla ragguardevole velocità di 22 chilometri all’ora.

Quella del fotovoltaico è una storia emblematica del nostro Paese, che dà forma al pregiudizio latente verso l’impresa. Un pregiudizio che in Sicilia tocca forse il suo apice. A partire dal 2005 generosi incentivi statali hanno fatto decollare il settore del fotovoltaico. C’è stata una vera e propria corsa a montare pannelli. L’Italia è diventata così uno dei principali produttori europei. Nel 2013 il governo Monti ha però abolito di colpo gli incentivi (si chiamavano conto energia), causando una vera e propria moria di imprese; il settore del fotovoltaico si è contratto del 70%. Tutto questo è costato ai contribuenti italiani l’impressionante cifra di 6,7 miliardi di euro all’anno per 20 anni. In tutto 134 miliardi di euro. Con un’aggravante. Mentre le imprese italiane del fotovoltaico cominciavano a spuntare come funghi, le imprese cinesi e tedesche, già presenti nel settore, facevano man bassa degli incentivi. Con i soldi pubblici italiani è stata quindi finanziata l’industria straniera. Se un docente dovesse spiegare ai suoi allievi che cosa possa significare l’assenza di una politica industriale, questo sarebbe il più puntuale e forse il più emblematico degli esempi.

 

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