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Principato: “I boss che escono dal carcere commettono i reati di prima”

Siamo più vicini alla cattura di Messina Denaro. Abbiamo tagliato i collegamenti tra il boss e molti suoi uomini fidati che fungevano da messaggeri, meglio ancora da "pizzinari". Gli arrestati erano stati già quasi tutti condannati per 416 bis, qualcuno per favoreggiamento personale proprio al superlatitante. Tuttavia, una volta usciti dal carcere, poi continuano esattamente l' attività criminale che esercitavano prima». A parlare è il procuratore aggiunto di Palermo, Teresa Principato, che ha coordinato con i sostituti Paolo Guido e Carlo Marzella l' indagine sfociata ieri all' alba in undici arresti di presunti fedelissimi del boss dei boss del Trapanese. Inafferrabile da ventidue anni.

Dottoressa Principato, com' era composta la rete di fiancheggiatori che avete smantellato?
«Si tratta di persone non solo inserite in Cosa nostra in modo radicato, ma addirittura con ruoli diverti ce. E questo, oggi, è il vero grande problema del nostro lavoro. Provare un' associazione mafiosa è difficile, richiede un lavoro di grande pazienza soprattutto senza l' aiuto dei collaboratori di giustizia, che scarseggiano. Nel Trapanese, poi, sono completamente assenti. Quando poi per un' associazione mafiosa si infliggono pene modeste, allora il nostro lavoro viene spazzato via non solo perché queste persone continuano a comandare dal carcere, ma anche perché una volta liberi si reinseriscono immediatamente nei territori dove operavano. Anche nei ruoli apicali».

L' inchiesta che state conducendo è complessa e dura da molti anni. Ad un tratto, però, sembra esserci stata un' improvvisa accelerazione. Per ché?
«Abbiamo arrestato quasi cento persone collegate a Messina Denaro. Sono tante. Abbiamo eseguito provvedimenti di carattere patrimoniale molto pesanti. Abbiamo arrestato quasi tutti i suoi familiari, persino la sorella. Gli stiamo facendo terra bruciata attorno. L' ultima operazione, inoltre, ha ulteriormente reciso i rami vivi che continuano a circondare un boss di questa rilevanza, un latitante completamente anomalo. Il merito è stato un salto di qualità del meccanismo investigativo: sono state messe insieme delle informazioni che prima erano frammentarie. Alcuni familiari li aveva la polizia, altri i carabinieri. Erano molto difficile coordinare tutto, mettere a fuoco alcuni elementi che prima erano davvero sbrindellati. Da qualche mese gli uomini del Servizio centrale operativo della polizia e i militari del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri hanno creato un unico gruppo di lavoro per l' obiettivo comune: la cattura del superlatitante».

Pensa che adesso il boss possa fare un passo falso?
«Difficile prevederlo. Noi continuiamo a battere il territorio, continuiamo con gli arresti, continuiamo a sorvegliare tutti i suoi movimenti. Anche i meno consueti, anche i più improbabili. Giovanni Falcone diceva che la mafia, come tutte le cose umane, ha un inizio e una fine. Vale anche per Messina Denaro. Ha avuto un inizio nel 1993, avrà una fine. Speriamo il più presto possibile».

Perché non si riesce a catturarlo da oltre vent' anni?
«Perché è un latitante anomalo. In primo luogo perché è abituato alla latitanza essendo cresciuto col padre, Francesco, anch' esso latitante. E poi perché Messina Denaro associa, a differenza di altri grandi latitanti come Provenzano e Riina, la tradizione più cruenta della mafia con elementi di forte modernità. I "pizzini", per esempio, sono solo una forma di comunicazione. Noi riteniamo che ce ne siano degli altri. E stiamo indagando su questo».
Messina Denaro ha sempre goduto della protezione frutto di connivenze e omertà tipiche delle zone più impenetrabili della Sicilia occidentale.

Agli occhi di molti appare come una figura mitica: potere, soldi, la passione per le belle donne e le auto di lusso. È ancora così?
«No, assolutamente. A Castelvetrano, negli ultimi tempi, si sono verificate cose impensabili in altri anni: cortei contro la mafia, lezioni di legalità nelle scuole. Passi avanti che in certi casi ci hanno stupito per intensità. E più passerà il tempo e scomparirà la generazione che ha mitizzato la sua figura, più l' onnipotenza di Messina Denaro andrà scemando. Nel Trapanese, come altrove».

L' ultimo «contatto» con Messina Denaro, il più vicino, a quando risale?
«All' inizio del 2014, quando si stava preparando la solita rete per le comunicazioni del boss interrotta con l' operazione Eden. Matteo Messina Denaro non sta sempre nel Trapanese, si sposta dalla Sicilia e anche dall' Italia. E quando sente stringersi attorno a lui in cerchio, taglia i contatti con i fedelissimi finiti sotto indagine».

Nel Trapanese, complice la pesante influenza della mafia, l' anno scorso si era registrata un' impennata di intimidazioni, vere o presunte. Il numero maggiore è stato a Castelvetrano. A che punto siamo oggi?
«Bisogna fare alcune distinzioni. Ci sono le vere intimidazioni, conclamate, e poi ci sono le false intimidazioni che servono soltanto per accendere i riflettori sulle persone che denunciano di averle subite. Quasi come per prepararsi un terreno di discolpa.
Un po' come fanno i mafiosi che si iscrivono alle associazioni per la legalità. Ce ne sono tantissimi. E poi vanno a fare le estorsioni. Oggi, comunque, il sistema delle false intimidazioni, soprattutto nel Trapanese, è in calo».

L' inchiesta su Mafia capitale che ha travolto Roma, la 'Ndrangheta in Piemonte con centinaia di arresti e due comuni sciolti ai piedi delle Alpi nell' ambito delle operazioni Minotauro e Alba chiara. E poi la criminalità organizzata in Lombardia e Liguria. Cosa nostra non più marchio tipicamente siciliano. È così?
«La mafia ormai è ovunque. Non è più un brand che caratterizza la Sicilia, come non è più un marchio solo calabrese o campano. La mafia è a Roma come a Palermo. Le armi sono le stesse: infiltrazioni nel settore degli appalti, grossi affari. La corruzione. L' altra faccia della medaglia della mafia».

 

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