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Cipolletta: «L’economia cresce, ma non basta. Usciremo dalla crisi solo tra sei anni»

Balugina qualche timido segnale di ripresa, dal fosco quadro che da qualche anno segnala il Paese in un grave stato di deperimento. L’export si rianima, la domanda interna è timidamente in risalita, le previsioni degli operatori sono improntate a un cauto ottimismo, quelle del governo a una certa euforia. L’uscita dalla crisi è realtà o soltanto un mantra di Renzi che ci fa tutti più contenti e fiduciosi? La diagnosi dell’economista Innocenzo Cipolletta, già presidente di Ferrovie dello Stato e direttore di Confindustria, è piuttosto eloquente: «C’è qualche incoraggiante indizio che si possa essere giunti alla fine della recessione, ma i segnali non sono ancora abbastanza forti da ritenere il Paese ormai fuori dal tunnel». «L’economia nel suo complesso ha smesso di scendere - annota il presidente dell’Aifi - ma allo stesso tempo cresce troppo poco. Siamo in una fase transitoria. Per parlare di ripresa occorre aspettare ancora qualche tempo».

Governo, Abi e Confindustria si sono mostrati molto ottimisti: stimano che il nostro Pil crescerà dell’1,6 per cento nel prossimo biennio. Stiamo per uscire dalla deflazione?

«Le previsioni sono sempre legate a schemi piuttosto rigidi che giocoforza non possono tener conto delle incognite della realtà. È certo invece che l’Italia ha perso negli ultimi cinque o sei anni 9 punti di Pil. Per riuscire a tornare ai livelli di prodotto interno lordo pre-crisi, al tasso dell’1,6 per cento l’anno, dovremo aspettare il 2021 o il 2022, per rimettere la nostra economia in carreggiata. Soltanto a quel punto si potrà realisticamente dire che siamo usciti dalla crisi».

È un’Italia a doppia marcia. I consumi interni sono ancora in sofferenza, l’export dà qualche timido segnale di ripresa. Che indicazioni trarne?

«Dopo una crisi così potente avremmo dovuto ottenere un rimbalzo più significativo. Le vicissitudini dell’euro hanno soffocato la domanda interna perché si è deciso di continuare sulla strada della riduzione della spesa pubblica e dell’aumento delle tasse. La contrazione dei consumi era inevitabile a fronte di questa scelta. Viceversa, le esportazioni continuano a crescere perché dipendono dalla domanda globale: si sono giovate dell’indebolimento dell’euro. Politiche di questo genere generano una netta spaccatura tra domanda interna ed esportazioni: una divaricazione molto negativa che si ripercuote su Nord e Sud dell’Europa».

Il Jobs Act ha portato in questi ultimi mesi a qualche risultato sul fronte della stabilizzazione dei contratti precari. La riforma del lavoro funziona?

«Su questo terreno siamo in presenza di qualche segnale incoraggiante. Il numero dei lavoratori che hanno ottenuto un contratto a tempo indeterminato dice che il Jobs Act ha avuto un impatto positivo. In assenza di una vera ripresa, il numero di lavoratori coinvolti non è aumentato, naturalmente. Tuttavia mi sembra che il mercato del lavoro stia reagendo meglio di quanto non reagisca l’economia in generale».

Il premier ha promesso il taglio delle tasse nei prossimi tre anni. È stata intrapresa la strada giusta?

«La detassazione va accolta con favore. Sarebbe stato meglio, però, aumentare la spesa pubblica per sostenere gli investimenti e i redditi delle persone più povere. Non condivido la cancellazione della tassa sulla prima casa. È la più bassa di tutti gli altri Paesi europei, ed è a carico delle famiglie più benestanti».

Il taglio delle tasse annunciato da Renzi non rischia di penalizzare le famiglie più povere, se poi si tagliano i servizi?

«È proprio così. A questo argomento ho dedicato un intero libro («In Italia paghiamo troppe tasse» Falso! Laterza, 100 pagg. 9 euro, ndr). Così come è stato predisposto, il piano di detassazione improntato sul taglio dei servizi crea ulteriori disagi ai meno abbienti, e favorisce i ceti sociali che sono stati meno toccati dalla crisi».

Quanto incide il pressing dell’Europa sulle scelte del governo? Riuscirà ad ottenere un allentamento del rigore, come promesso da Padoan?

«Siamo membri dell’Europa ed è giusto far parte dell’euro. È arduo immaginare di ottenere una deroga alle regole. Pensare di rilanciare la domanda interna, a fronte del rigore, è molto complesso. È vano pensare di ottenere un po’ di flessibilità fatta a misura del nostro Paese. È l’Europa tutta che dovrebbe concedersi un allentamento del rigore, semmai. Converrebbe in primis alla Germania. Scegliere di rilanciare la domanda interna tedesca premierebbe anche la nostra economia, ma è difficile immaginare mutamenti in questo senso. Se agissimo di testa nostra, renderemmo d’altra parte inutili tutti gli sforzi fatti finora. Qualcosa tuttavia si può fare e andrebbe fatta. Io sarei del parere di aumentare le tasse ma anche la spesa pubblica».

Invece è già partita la spending review che ha messo nel mirino la sanità pubblica. Una scelta pericolosa?

«Quello che ha fatto sapere il governo è che non ci saranno tagli: si cercherà piuttosto di liberare risorse spendendo meglio. Risparmiare ed eliminare spese superflue è sicuramente utile, ma il compito si è rivelato in passato molto difficile. E spesso accade che nell’impossibilità di spendere meglio, visto che il personale non si tocca, si procede necessariamente con tagli alla spesa. Il deterioramento dei servizi, per queste ragioni, è quasi sempre inevitabile».

Il governo ha finora prodotto due riforme: Jobs Act e buona scuola. Ci sono altre urgenze per rilanciare il Paese?

«Le priorità sono il rilancio delle infrastrutture e il rilancio dei consumi delle famiglie. In particolare di quelle più povere, che devono disporre di maggiori introiti per tornare a spendere. In questo deve aiutarci l’Europa. Fare un po’ più di deficit farebbe bene alla Germania e anche a noi. Se Berlino non cambia rotta, rilanciare la domanda interna - per questo e qualunque altro governo -diventa quasi impossibile».

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