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Sciarone: «I boss contagiano Paesi in cui ci sono illeciti e corruzione»

Nel ’71 Leonardo Sciascia descriveva ne «Il contesto» un potere che «sempre più digrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa». E per il sociologo Rocco Sciarrone, docente di Sociologia della criminalità organizzata all’Università di Torino, la parola chiave per capire le migrazioni delle mafie è proprio questa: contesto. «L’idea più in voga per spiegare il fenomeno - spiega - è quella del contagio di regioni e Paesi apparentemente sani. In realtà, le infiltrazioni dipendono soprattutto dall’ospilatità e dall’accoglienza che i soggetti criminali ricevono nel contesto di arrivo». E dalle ultime ricerche curate da Sciarrone e raccolte nel volume «Mafie del nord» (Donzelli) emerge che le mafie s’insediano «in aree in cui c’erano delle pratiche illecite preesistenti, soprattutto legate alla corruzione economica e politico-amministrativa». Non solo: non si tratterebbe di una esportazione tout court di modelli mafiosi, ma piuttosto di «ibridazione». Nulla di poi tanto recente - basta pensare all’espansione di Cosa nostra tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del ’900 negli Usa - «l’aspetto nuovo e davvero preoccupante è quello della diffusione delle aree grigie, fatte di collusioni e complicità, di reti di relazioni che coinvolgono attori diversi, dal mafioso, all’imprenditore, al politico e al magistrato» e non si tratterebbe più di «una crescita dell’illegalità, quanto di una commistione tra legale e illegale, dove i confini diventano opachi e non si distingue più il buono dal cattivo».

Le migrazioni delle mafie sono un fenomeno recente?

«No, non sono un fenomeno nuovo, appartengono alle organizzazioni criminali, che nascono al Sud, sin dalle loro origini. La prima grande espansione verso l’estero è quella di Cosa nostra negli Usa, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del ’900, e ci insegna che non si tratta di un fenomeno di mera esportazione, in cui cioè le mafie sbarcano in territori prima sani ed immuni. È più complesso: Cosa nostra acquisisce una sua autonomia negli Usa e mantiene un rapporto bidirezionale, di scambio, con Cosa nostra siciliana, determinando un processo di ibridazione. Le attività sono simili, si tratta sempre di traffici illeciti, ma cambia il contesto».

In che senso non si tratta di semplice esportazione di modelli criminali?

«È fondamentale il contesto. L’idea più in voga, che critico fortemente, è quella di pensare a un contagio. Le mafie sarebbero come un virus che infetta aree prima sane e immuni. Le infiltrazioni all’estero vengono così associate alle grandi migrazioni di popoli. Oppure si lega il fenomeno agli obblighi di soggiorno a cui venivano sottoposti i boss negli anni ’60 e ’70. È una lettura è errata: in tante aree del Nord in cui uomini d’onore furono sottoposti all’obbligo di soggiorno non si riscontra oggi la presenza di mafie».

Cosa intende per contesto? Com’è fatto e su cosa si basa?

«Un virus non si diffonde solo per la sua forza propulsiva, ma anche perché trova un terreno fertile. Le mafie si sono sviluppate nelle aree in cui c’erano delle pratiche illecite preesistenti, soprattutto di corruzione economica e politico-amministrativa. Contano anche alcuni fattori economici, per esempio in relazione a un modo di fare impresa cercando le vie basse per far fronte alla concorrenza o per l’accesso al credito. Oggi l’elemento veramente nuovo e preoccupante è che al Nord e all’estero è possibile individuare delle aree grigie, basate su collusioni e complicità, e su reti di relazioni composte da attori diversi: il mafioso, l’imprenditore, il politico, il funzionario di banca, ma anche il magistrato o l’appartenente alle forze dell’ordine. Non si tratta dunque di una crescita dell’illegalità, ma di una commistione tra legale ed illegale, dove i confini diventano opachi e non si distingue più il buono dal cattivo, una struttura reticolare molto pervasiva e chi non si adegua resta fuori».

Quindi non è solo un problema legato alla criminalità organizzata?

«No. Se riuscissimo a sradicare le mafie, l’area grigia resterebbe e per contrastarla servono strumenti adeguati. È emblematico il caso di “Mafia Capitale”, un’organizzazione simile alla mafia, ma con modalità d’azione diverse: la corruzione fatta sistema. Servono interventi per ristabilire i confini tra lecito e illecito»

Quali?

«Occorre rendere più efficace la lotta alla corruzione che non può essere separata da quella alla criminalità organizzata, per incidere sui meccanismi di riproduzione delle mafie. È necessario creare degli incentivi per il mondo economico e sociale e lavorare sugli effetti reputazionali. Un attore si adatta anche al riconoscimento che riceverà nel suo ambiente, alla valutazione sociale delle sua reputazione. Se un politico si accompagna a mafiosi e non solo ne ottiene vantaggi, ma non viene neanche censurato socialmente, tutto diventa lecito. Possono svolgere un ruolo fondamentale gli ordini professionali, per esempio. Gli effetti di un tale sistema sono devastanti, in termini di coesione sociale e di diseguaglianze. Le mafie non devono diventare un alibi per coprire questa realtà».

Quali sono le attività che attraggono le mafie all’estero?

«Oggi le mafie si inseriscono in attività legali o formalmente legali, oltre che gestire traffici illeciti. Operano nell’edilizia, ma anche nella grande distribuzione e nella gestione di esercizi commerciali. Oggi è diverso il riferimento col territorio. La ’Ndrangheta per esempio all’estero e al Nord ammette passaggi da un ’locale’, una cosca, all’altro, cosa che in Calabria sarebbe inammissibile. Ecco perché parlare di una semplice clonazione delle mafie è sbagliato»

Quali mafie sono più presenti all’estero?

«Soprattutto la ’Ndrangheta e la Camorra, che è molto più imprenditoriale. Cosa nostra appare più frammentata, forse in declino. Non abbiamo elementi sicuri per dirlo, ma potrebbe in realtà essere un passo avanti, ovvero pienamente infiltrata nella finanza. Un altro aspetto molto importante è il capitale sociale delle mafie».

Cioè?

«Sia nella politica che nella finanza contano sempre più le relazioni personali ed è un’opportunità per le mafie. Nelle competizioni elettorali, i boss finiscono per diventare come un grande elettore, ma sono fondamentali pure nell’economia per la loro capacità di mediazione. E molto spesso i contatti non sono incosapevoli, si sa cioè che di fronte ci sono dei mafiosi».

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