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Sicilia e malaffare, Agueci: «Tangenti nascoste fra gli atti che sembrano in regola»

Che la corruzione sia lo strumento utilizzato ormai dalle mafie per «comprare» lo Stato ed accaparrarsi appalti e finanziamenti, come emerge dall'inchiesta romana «Mafia capitale», lo condivide pienamente. Però, secondo il procuratore aggiunto di Palermo, Leonardo Agueci, «qui, negli uffici, non vige quel caos descritto dall'assessore alla Legalità di Roma, Alfonso Sabella, ma piuttosto una logica delle ”carte a posto"». Un sistema in cui, cioè, tutto sembra apparentemente pulito, ma che permette anche di nascondere imbrogli e giri di tangenti. Di una cosa è certo Agueci: «La legalità non può essere solo un problema della magistratura. Possibile che quando c'è da rimettere ordine come accade in questo momento a Roma si debba chiamare per forza un magistrato a svolgere compiti amministrativi? Si deve dedurre che la pubblica amministrazione non sia in grado di produrre dirigenti e funzionari che abbiano a cuore la trasparenza ed il rispetto della legge. Ma la legalità deve riguardare chiunque rappresenti lo Stato a livello amministrativo».

Dall'inchiesta «Mafia capitale» emerge piuttosto chiaramente che ormai i clan utilizzano la corruzione per mettere le mani sulle risorse pubbliche e fare affari. Questo tipo di sistema è presente anche qui?
«La realtà romana è molto diversa da quella siciliana. A differenza di quello che sostengono alcuni, trovo corretto comunque parlare di mafia, intesa come un gruppo criminale organizzato che si serve dell'intimidazione per raggiungere precisi scopi, anche a Roma. Non a caso, già ai tempi della banda della Magliana si parlava di associazione mafiosa e dei suoi collegamenti con settori di potere. La diversità sta secondo me nel totale disordine amministrativo che l'ex magistrato ed attuale assessore romano alla Legalità, Alfonso Sabella, ha descritto ieri, parlando addirittura dell'esistenza di 12 mila pratiche di somma urgenza. Da noi prevale una logica diversa, delle ”carte a posto”: tutto sembra sempre apparentemente in ordine, ma magari poi nasconde imbrogli e giri di mazzette». Nel disordine descritto a Roma si finisce per non riuscire neppure più a distinguere cosa sia realmente disordine e cosa sia invece corruzione. E questo caos favorisce l'illegalità. Un'altra differenza poi è legata al fatto che a Roma ci sono grandi investimenti e circolano molti soldi, cosa che in Sicilia non avviene certamente nelle stesse proporzioni».

Proprio per questo la mafia si trasferisce a Roma, al Nord, all'estero...
«Certo, cerca nuovi orizzonti perché dispone ancora di immensi capitali incontrollati e prova dunque a fare investimenti. Le mafie, non solo Cosa nostra, vanno ormai ben oltre l'estorsione di quartiere e cercano di prendersi le risorse dello Stato, di comprarlo».
Ma in Sicilia si tengono le «carte a posto» perché si temono di più i controlli? Questa è comunque una terra che fa i conti da decenni con la criminalità organizzata, ci rende più preparati?
«Anche grazie a ciò che si è fatto negli ultimi vent'anni, da noi prevale spesso un'apparente correttezza delle carte alla quale corrisponde però una sostanziale inefficienza. Da questro punto di vista le cose sono diverse rispetto a Roma: Sabella parlava di impiegati che urlavano e contestavano, qui magari il tono è molto gentile ed ossequioso, ma poi si rischia di essere colpiti fisicamente e a tradimento. La nostra è una realtà molto più viscida ed obliqua».

Sul fronte dei controlli invece?
«I controlli, e lo diciamo da anni, qui non ci sono. E denunciamo da tempo che questa è la causa principale dell'espandersi della corruzione. Le verifiche qui sono spesso formali e carenti, sia all'interno che all'esterno della pubblica amministrazione. A volte nel pubblico si sostiene che l'immobilismo e l'inefficienza dipendano dal timore di controlli da parte della Procura o della Corte dei Conti, ma questo è solo un pretesto».

Cosa si può fare per invertire la rotta?
«Sono due i momenti in cui si può intervenire, quello preventivo e quello repressivo. Nel primo caso vuol dire favorire la trasparenza delle procedure ed anche la concorrenza, purché questa sia reale e non nasconda invece dei cartelli pronti a spartirsi finanziamenti ed appalti. Nel secondo caso, invece, non ci deve essere la fondata convinzione dell'impunità sostanziale, perché altrimenti il malaffare prolifera e si diventa anche disposti a sopportare processi e traversie giudiziarie, visto che poi tutto sommato si rischia poco. Le statistiche ci mostrano infatti che le persone che scontano pene detentive per fatti di corruzione sono pochissime».
Quando emergono questi scenari di corruzione dilagante si sceglie sempre un magistrato per cercare di mettere ordine. Penso a Sabella, ma anche a Raffaele Cantone. Perché?
«Sabella è una persona di grandissimo valore. Ma il fatto che nell'ambito della pubblica amministrazione ci sia bisogno di magistrati che però svolgono funzioni amministrative manda il segnale non solo che queste sono le uniche persone che possono combattere l'illegalità, ma anche che la pubblica amministrazione non è in grado di produrre dirigenti e funzionari capaci di combattere la corruzione, che abbiano a cuore la trasparenza ed il rispetto delle leggi. La legalità deve riguardare chiunque rappresenti lo Stato a livello amministrativo, non solo i magistrati. E questi ultimi devono invece essere messi nelle condizioni di fare al meglio il loro vero lavoro».
Eppure non si fa altro che parlare di legalità...
«Se ne parla moltissimo, ma si pratica poco. Dopo Mani pulite, quando si pensava di aver scoperto tutto il malaffare possibile, siamo tornati al punto di partenza e il vero risultato è stato di rendere ancora più complicato l'intervento da parte della magistratura. Inoltre adesso ci sono meno risorse ed il costo della corruzione si fa più pesante. Quando si fa fatica a sbarcare il lunario è probabile che ci si renda più disponibili ad intascare una mazzetta. Anche se, proprio la crisi, fa sì che i cittadini siano meno disposti a tollerare».

Uno dei meccanismi che spesso nasconde corruzione è quello legato alle emergenze, vere o presunte...
«Sì, è un meccanismo ormai noto e quasi scontato. Impressiona che a Roma si ricorra ancora in maniera così massiccia alla somma urgenza. Un'emergenza vera qui da noi in certi casi c'è, come per esempio l'interruzione della Palermo-Catania, ma dopo due mesi, quando - proprio per via dell'emergenza - dovrebbero già esserci cantieri aperti, tutto è fermo. L'unica emergenza che si è realmente attivata è di fatto soltanto quella burocratica e ciò potrebbe far pensare che dietro questo vi sia qualcuno che intenda lucrare sull'emergenza stessa. Giorni fa un sindaco di un Comune delle Madonie osservava che forse qualcuno sta brindando sulla interruzione dell'autostrada come hanno fatto quegli imprenditori che brindavano sul terremoto de L'Aquila».

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