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Se assieme a lui abbiamo vinto... Nel Falcone day nuovi allarmi

Se oggi il capo dello Stato, a Palermo, commemora nell’aula bunker Giovanni Falcone, ucciso dalla mafia 23 anni fa, si è ad un fatto di storia che si arricchisce di simboli. Sergio Mattarella è il fratello di Piersanti, il grande Presidente della Regione vittima di Cosa Nostra. Era l'uomo nuovo che rompeva gli equilibri del sistema vecchio. Dopo la sua morte, è Sergio che apre la stagione del cambiamento nella Dc e in Sicilia. In questo contesto emerge Giovanni Falcone. Egli coglie i segnali del nuovo, diventando stratega e artefice di una controffensiva da cui la mafia esce, come è oggi, colpita, divisa e soccombente.

Fu lui a dare forma giudiziaria alle spinte innovatrici sia politiche che sociali (diceva, «sentiamo che oggi fanno il tifo per noi»). Usò con rigore ed intelligenza gli strumenti che il parlamento faceva nascere con uomini come Pio La Torre, altra grande vittima della mafia. Ma capì, da giudice lungimirante, che il contrasto di Cosa Nostra non poteva condursi solo con le armi dei magistrati e con le forze di polizia. Capì quanto fossero fondamentali una nuova politica e un nuovo modello dell’economia. Non potremmo oggi, dopo 23 anni, valutare gli straordinari risultati del contrasto, se non ci fosse stata l’intuizione di mettere le tre cose insieme.

Qual è oggi lo stato delle cose? Sentiamo da settimane magistrati ed esperti nelle pagine di questo giornale. Ne viene fuori il quadro di una mafia bifronte. Frantumata, militarmente sconfitta. Mai così in difficoltà da centocinquant’anni a questa parte (Visconti). Ma che ha, al suo interno, anime diverse. Nulla esclude che qualcuno pensi a diventar forte attraverso attentati eclatanti (Messineo). Da qui le notizie sui progetti di morte che hanno al centro magistrati autorevoli come Renato Di Natale, Nino di Matteo, Gabriele Paci e Silvana Saguto, cui va la gratitudine di tutti.

Oggi la mafia si espande al nord per trovare ricchezze e crescita. Non vuole spargere sangue ma penetrare nei salotti buoni della finanza e delle istituzioni (Morosini). Ora, perché questa mafia militarmente più debole, ma ancora economicamente forte, possa subire azioni di contrasto efficaci, sono necessari correzioni e aggiornamenti. Intanto devono affinarsi i sistemi di aggressione dei patrimoni mafiosi. Sequestri, confische e destinazioni devono essere più rapidi. La gestione, poi, deve uscire dalle secche di burocrazie immobilizzanti. Devono entrare in campo manager perché non ha senso lasciare «inattiva questa ricchezza» (Maria Falcone). Per quanto i procedimenti sono, secondo i dati degli ultimi quattro anni, in continua ascesa (Saguto). Così come bisogna preoccuparsi di tutelare i creditori in buona fede (Visconti) e i magistrati che indagano devono essere sempre più esperti in economia e gestione aziendale (Morosini).
Nulla è rimasto fermo in questi anni. Ci si è mossi e ci si è mossi bene. Autorevoli osservatori internazionali riconoscono che nel contrasto delle mafie, così come in quello del terrorismo, l’Italia ha raggiunto primati importanti. Ma ai progressi della magistratura e degli inquirenti non corrispondono in misura adeguata progressi nella politica e nell’economia. Un intreccio perverso vede ancora prevalere le logiche del deprecato, ma sempre vegeto, «capitalismo di relazione». Contano poco merito e qualità, molto invece le appartenenze. L’amministrazione pubblica ha ancora invadenze troppo forti nell’economia. E include, secondo logiche di clan e di fedeltà.

Prevale l’amico, il conoscente, il gruppo organizzato, la lobby, la cosca. Non c’è competizione ma cooptazione. E si aprono varchi al malaffare di ogni genere. Si muovono nel grigio delle anticamere affaristi e mafiosi di ogni risma. Che anzi, oggi, abilmente si travestono e camuffano.
Tutto questo rende urgente una svolta. Per essere più forti contro la mafia bisogna correggere anche metodi e canoni dell’antimafia. Irrompono nella scena troppi «eroi di guerre mai combattute» (Bubbico). S’avanzano corrotti e mestatori che si mescolano e si nascondono fra i tanti onesti che fortunatamente ancora prevalgono e tengono il campo. Ai quali dobbiamo dare un sostegno pieno e forte. Come oggi facciamo con Francesco Massaro, commerciante e giornalista che grida il suo no agli estortori che lo minacciano.
Ma l’antimafia deve rendere sempre più visibili i suoi valori originari. Trasparenza e merito nelle nomine. Prevalenza, sempre e dovunque, della competizione libera nel quadro di regole certe, per appalti, carriere e attribuzioni di ogni genere. Rifiuto pieno di forme oscure di inclusione sempre più frequenti. Perché talora o spesso, come scriveva Addiopizzo nelle pagine di questo giornale (15 maggio), si è ormai «al trionfo dell’antimafia dei proclami» e l'impegno sul «terreno dell’antimafia» è inteso come «lasciapassare privo di regole per entrare in politica ricevere e ricoprire incarichi» in Sicilia e fuori.
Una svolta non facile. Fortunatamente tante autocritiche vengono fatte negli ultimi mesi. E bisogna aggiungere che competenza e merito, trasparenza e imparzialità sono valori che meglio si affermerebbero, quanto più il modello siciliano vedesse protagoniste imprese libere e private in grado di concorrere tra loro in uno spazio di regole chiare per tutti. E non invece una economia a prevalenza pubblica, dominata dal metodo perverso della relazione e dell’interesse di parte.

Diceva Giovanni Falcone a Marcelle Padovani («Cose di Cosa Nostra») che la mafia cresce nel sottosviluppo e nelle pieghe di uno sviluppo distorto. In Sicilia è ben diffuso il primo, con conseguente degrado culturale e crescono le forme del secondo. Ricordando oggi Giovanni Falcone, dobbiamo riflettere su come superare l’uno e l’altro. Per continuare a vincere insieme lui e a quanti, come lui, sono morti in una trincea che vorremmo non diventasse di nuovo tragicamente calda. Grazie Falcone.

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