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Paolo Magri: "Ma Triton non serve contro stragi e racket"

PALERMO. «Più lontana dalle coste di imbarco e dotata di meno navi: l’operazione Triton è nata volutamente per essere meno efficace di Mare Nostrum». Paolo Magri, direttore e vicepresidente dell’Istituto Studi di Politica Internazionale «Ispi», boccia l’operazione multinazionale di pattugliamento del Mediterraneo perché non previene le stragi in mare, né tantomeno reprime il ”racket dei barconi” gestito dalle bande nordafricane dei trafficanti di esseri umani: «Triton — spiega Magri — è ispirata dalla filosofia della deterrenza, voluta da molti Paesi europei secondo i quali più rendiamo incerto e tardivo l’intervento di soccorso, minore sarà la propensione all’imbarco. Questa, però, è una filosofia che non funziona quando si scontra con la disperazione di chi fugge e la violenza di chi organizza imbarchi forzati».

I «boss degli sbarchi» fanno affari, mentre il Mediterraneo è ormai un immenso cimitero di migranti. Italia, Europa, Occidente da troppo tempo inermi di fronte alla tratta dei disperati?
«Sì. L’Europa sta dimostrandosi incapace e disinteressata sia ad affrontare l’emergenza degli sbarchi, sia le sue radici profonde. Ovvero, le crisi politiche e militari in molti paesi dell’Africa e del Medio Oriente che sono alla base delle migrazioni. L’Italia ha fatto, con Mare Nostrum, la sua parte quantomeno per la gestione dell’emergenza: era, però, politicamente costosa perché invisa all'opinione pubblica e, quindi, è durata un solo anno».

Il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, non aveva escluso nei giorni scorsi azioni contro le organizzazioni criminali libiche che controllano porti e imbarchi. In queste ore, invece, il premier Matteo Renzi ha decisamente frenato. Cosa si può fare davvero?
«In Albania, negli anni ’90, vennero attivate azioni di sabotaggio alle barche del traffico. La situazione in Libia è, però, più pericolosa per questo tipo di operazioni e il racket del traffico è molto più organizzato di allora e in grado di ripristinare questi traffici lucrosi in tempi brevi. Colpire gli scafisti non significherebbe infatti colpire l’organizzazione criminale che vi sta dietro. Vi è, poi, una questione etica: non possiamo abbandonare dei disperati in fuga alla mercé di bande criminali sul territorio libico».

L’esodo non si ferma, anzi aumenta. Il Governo italiano chiede all'Unione Europea la creazione di campi profughi in Africa. Servirà a qualcosa, se mai si farà?
«Già in passato, con Gheddafi, abbiamo creato campi profughi gestiti dalla Libia che violavano apertamente i diritti umani e le convenzioni internazionali. Se anche si volesse ripercorrere questa soluzione, sarebbe di difficile attuazione».

La Libia è sempre più il «Paese del Caos». I negoziati di pace durano ormai da troppo tempo, perché si possa sperare in risultati concreti?
«Il pessimismo prevale ormai apertamente in molte cancellerie. Il governo di Tobruk, il cosiddetto "governo legittimo", si sente appoggiato politicamente e militarmente da paesi come Egitto e Arabia Saudita e sta alzando la posta in gioco nel negoziato. Ciò obbliga ad affrontare i possibili "piani B", ovvero interventi militari quantomeno per fermare Isis. Non è, però, chiaro quali Paesi siano realmente intenzionati ad avviare una missione che appare costosa e pericolosa».

In Tunisia, intanto, il museo del Bardo ha riaperto. Prova superata, almeno da quel Paese?
«La Tunisia ha reagito con unità e forza alla minaccia terroristica, seguendo la tradizione di questa nazione che rappresenta, infatti, un caso particolare nella regione. È, però, presto per dire se la prova è definitivamente superata: se non si rimuove il disagio economico di una parte significativa della popolazione, le forze radicali potranno trovare nuove reclute e nuovo supporto».

Dall'Afghanistan alla Nigeria, il terrorismo islamista sembra inarrestabile. Siamo condannati all'orrore quotidiano del «jihad»?
«Sta accadendo quanto temevamo. Allo Stato Islamico, visto come il gruppo più forte e vincente, si stanno affiliando gruppi da tempo operanti in vari Paesi. Si assiste, inoltre, all’infiltrazione di cellule in realtà ancora instabili, com’è il caso dell'Afghanistan».

Si può almeno sperare nella rapida caduta del Daesh, lo Stato Islamico, adesso che in Iraq la coalizione internazionale avanza?
«In Iraq, i risultati della coalizione che contrasta militarmente Daesh sono più significativi perché le truppe di terra iraniane e irachene stanno appoggiando significativamente i raid aerei. Ma la struttura del Califfato è transnazionale, prescinde dai confini esistenti fra gli stati. E un successo in Iraq può significare, in tempi brevi, un travaso di combattenti in altri Paesi. Siria, in primis».

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