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Le riforme, non la resa nell'anno che verrà

La politica non c’è. È incentrata nei partiti. I quali, da vent’anni almeno, sono liquefatti. Non scuotono cuori e coscienze. La partita più grossa si gioca sul contrasto della corruzione. Per rompere l’idea che «in un modo o nell’altro rubano tutti»

Elicotteri e navi circondano l'Atlantic in fiamme. Nel mare forza 8, con un vento che soffia a 100 chilometri all'ora, mezzi e uomini vincono le nuvole di fumo che avvolgono la nave, portando in salvo più di 400 persone. Il Capitano del traghetto, pur stando «poco bene», abbandona il ponte per ultimo rischiando più degli altri, come suo dovere. Una straordinaria efficienza che non rende meno amaro il bilancio della tragedia: 13 morti accertati, quasi 40 persone disperse in un giallo ancora non chiarito che dicono quanto mai attuale sia quella priorità della sicurezza ancora sottovalutata. Ma che pure offre una immagine diversa del Paese. Anche questa è Italia.
L'anno che si chiude è dominato dalle cronache tristi dall'economia in crisi. Da 13 mesi registriamo valori negativi della ricchezza nazionale che regredisce permanentemente. Negli ultimi vent’anni abbiamo perso 14 punti rispetto alla Germania. La disoccupazione incalza e brucia una intera generazione di giovani. I valori sono peggiori nel Sud. Dove si contano, negli ultimi sette anni, 40 mila imprese in meno, 700 mila posti di lavoro perduti, 125 mila operai in cassa integrazione e una persona su due che ha rinunciato a cercare un lavoro. E sono disastrosi nella nostra Sicilia. Ma crediamo di dovere riflettere, in questo fine anno, non sui dati che si hanno davanti ma sulla realtà che c'è dietro.
Non siamo un Paese senza risorse. Rischiamo, invece, di diventare sempre più un Paese senza «società». L’analisi migliore sullo stato delle cose ce la consegna il Censis, quando parla di un’«Italia delle sette giare».

Ossia una nazione senza sistema dove poteri sopranazionali, politica nazionale, istituzioni, minoranze vitali, gente del quotidiano sono «mondi non comunicanti». Le giare non sono brutte in sé. Talora sono lucide, panciute, ben smaltate, talora preziosamente decorate.
Belle ma chiuse. Ciascuna ha una vita dentro che non si integra con quelle delle altre. Queste giare bloccate su se stesse bloccano un Paese. E si è all’Italia dominata dal principio del «bado solo a me stesso». Ma anche all’Italia dominata dalla paura del futuro e dall'incertezza. Le imprese sono colpite da una impresa profonda. Ma anche gli imprenditori che potrebbero investire non lo fanno. Il potere di acquisto delle famiglie si riduce, certo. Ma anche quanti hanno soldi da spendere non spendono. Cosi nelle banche aumentano i depositi, persino in quelle dell’Isola.
Per riconnettere questi mondi, secondo il Censis, ma anche secondo noi, la politica deve orientare la società, «riprendendo la sua funzione di promotore di interesse collettivo». Ma qui si è al punto cruciale della crisi. La politica non c’è. È incentrata nei partiti. I quali, da vent’anni almeno, sono liquefatti da una degenerazione progressiva. Non elaborano idee. Non scuotono cuori e coscienze. Non propongono progetti. Non comunicano visioni. Non appassionano né entusiasmano. Si appiattiscono. Annaspano. Si muovono per la disperata affermazione di se stessi. Occupano gli spazi per cercare il consenso attraverso lo scambio di favori. E, talora o spesso, alimentano reti di malaffare per produrre arricchimenti facili dei propri esponenti, dei gruppi e delle lobby prodotti da loro e a loro asserviti.

Da questi partiti non può non derivare un contesto istituzionale fragile e confuso. Dove poteri grandi e piccoli si contrastano. L’uno neutralizzando l’altro. Dal ’94 in poi, i nostri ultimi vent’anni, il vuoto dei partiti è stato riempito da leadership personali forti. Prima Silvio Berlusconi, l’uomo del sogno, del miracolo possibile rilanciando il ruolo della libera impresa, del libero mercato, facendo fare passi indietro allo Stato. Adesso Matteo Renzi, il politico giovane che ringiovanisce tempi e modi della politica, riformando istituzioni centenarie, imponendo modi e ritmi nuovi alle decisioni collettive. Non è finita bene con il primo.

Aspettiamo, con qualche speranza, il successo del secondo. Solo che le leadership forti non bastano, se partiti e gruppi sociali che li sostengono non cambiano radicalmente.
Così le cronache politiche dell’ultimo anno, pur non prive di novità importanti, si muovono come figure sfilacciate in un palcoscenico chiassoso pieno di ombre. Si avviano, è vero, riforme del parlamento e della legge elettorale, perseguendo l'obiettivo giusto di semplificare le istituzioni, di accelerare l’iter delle leggi, di consentire modelli certi di governabilità. Ma ci sono salti continui di tiro. Ciascuno tende a ripiegarsi sul livello basso del calcolo di partito, piuttosto che proiettarsi sul profilo alto dell'interesse generale. Si conduce in porto la riforma del lavoro (il jobs act).

È sacrosanta l’idea di rendere eguali per tutti le tutele e favorire non i licenziamenti ma le assunzioni liberando gli imprenditori dall’incubo di reintegrare i lavoratori che si è costretti a licenziare. Ma una mediazione eccessiva ha prodotto norme non semplici da capire. E la disparità che emerge tra lavoro pubblico e lavoro privato annacqua la portata innovatrice del provvedimento. Si parla di riforma del fisco favorendo giustamente le imprese (meno Irap, meno contributi sulle assunzioni) e le famiglie (più bonus). Ma in realtà si finanziano i tagli di alcuni tasse introducendone altre.

E quanti, dall'opposizione, chiedono riduzioni fiscali più forti, non precisano quali quote sopprimere della spesa pubblica, che resta cancro inestirpato e inestirpabile di ogni amministrazione, con un seguito impressionante di sprechi, ruberie, dissesti, incursioni di troppe mafie e criminalita di ogni risma. Si è dunque a piccoli passi in avanti. Ma ben lontani dal colpo d’ala che serve per dare una spinta al Paese e ricongiungere la politica con il cuore della gente.
Ci vuole un salto d’immagine forte. Da realizzare attraverso svolte radicali e visibili. Nella prospettiva di questa svolta, la partita più grossa si gioca sul contrasto della corruzione. Per rompere l’idea, purtroppo motivata, che «in un modo o nell'altro rubano tutti». Vediamo prodursi decisioni volte a emozionare e stupire. Commissari e supercommissari, istituzione di organismi speciali contro la corruzione, figure nuove di reati, assessori alla legalità, aggravamento delle pene esistenti. Serve tutto questo? Forse a qualcosa serve. Si sciolgono così i nodi di fondo? Crediamo proprio di no. Ci pare che, al riguardo, servano cose più semplici. Ma, a quel che sembra, più difficili. Forse impossibili.

Facciamo due piccoli esempi: uno legato a Roma, l’altro alla nostra Sicilia. «Mafia capitale» ha messo a nudo speculazioni orrende sugli immigrati. È tremenda quella frase intercettata che dice «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? il traffico di droga rende meno». Non pretendiamo fosse visibile il malaffare organizzato dietro la gestione dei centri di accoglienza, nel Lazio, e non solo lì. Ma chiediamo: è mai possibile che controlli amministrativi semplici e dovuti non potessero mettere a nudo, prima dell’azione dei magistrati, scarti cosi evidenti tra i soldi che il Comune spendeva e i risultati di assistenza pessima garantita agli immigrati? E se quei controlli non si facevano per collusione o inettitudine, non dovrebbe oggi essere visibile una riorganizzazione dei controlli, una evidenza delle ispezioni, di cui rendere partecipi i contribuenti? Non ci pare sia successo nulla. Abbiamo solo le inchieste dei magistrati.
Nella nostra Isola, poi, importanti scandali nella sanità sono stati svelati dai controlli ordinari di un dirigente accorto e capace come Antonio Candela. Ci chiediamo: se quei controlli fossero diffusi e decisi dai molti che operano sul campo, quanti sprechi, quante ruberie si sarebbero evitati? E quanti ancora potrebbero evitarsi se la politica promuovesse gestioni rigorose e attente, sollecitando manager e dirigenti che dormono? E se tali sollecitazioni non si attuano, non dobbiamo pensare che troppe collusioni e alleanze tra politica e malaffare siano ancora in corso? Non sono cattive domande. Caso mai, si può parlare di cattive risposte. Intanto, il dottor Candela cammina sotto scorta...

Così stanno le cose. Il tempo è grigio. Ma noi confidiamo che un colpo d’ala sia ancora possibile. Non viviamo nel Paese e nell’Isola migliori. Ma vediamo pure tante risorse che fanno sperare. Per questo proprio oggi, nel tracciare il brutto bilancio dell’anno che si chiude, vogliamo pure accendere i riflettori su elementi positivi. Troverete a pagina 11 un grafico dedicato alla «Sicilia che funziona» che dà conto di quelle imprese private che, malgrado le difficoltà, raggiungono risultati importanti e si affermano nei mercati.

Per questo abbiamo deciso di fare di questo 2015 che si apre il nostro «anno del Natale», raccontando dei tanti volontari che operano in Sicilia per sostenere quei poveri veri di cui le cronache non si occupano nella misura dovuta e ai quali le amministrazioni pubbliche volgono sguardi distratti. Persone straordinarie che si sbracciano per dare sollievo a emarginati, senza casa, malati e bambini condannati dalla sfortuna. Così come terremo i riflettori accesi su quanti, a proprio rischio, si rivoltano contro i molti mafiosi e mascalzoni che premono su aziende e negozi, per estorcere somme e risorse che sempre più scarseggiano. Invece di cadere in un catastrofismo senza prospettive, valorizzeremo iniziative e sforzi, sia grandi che piccoli. Di quanti non accettano la resa e sono convinti, e noi con loro, che ciascuno deve saper fare qualcosa per dimostrare che ce la possiamo fare. Buon anno.

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