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Sironi, quei paesaggi sono il vuoto dell’anima: opere in mostra al Vittoriano di Roma - Foto

Un pittore che coglie sempre un deserto silenzioso, di sconcertante e precaria modernità. Una visione algida che ce lo fa sentire sempre contemporaneo e, in un certo senso, preveggente

Il senso di vuoto. E alcune linee. Il sentimento d'angoscia, con qualche colore che lo abbraccia. E poi l'arte come palliativo: imminente, ma provvisoria risposta all'inquietudine. «Una lezione di tragedia», ha definito la sua pittura lo scrittore Gianni Rodari. Eccolo, Mario Sironi (1885-1961). Un pittore funambolico, che passa dai ritratti ai palazzi, cogliendovi sempre quel deserto silenzioso, di sconcertante e precaria modernità.

A lui - all'artista innamorato dell'impareggiabile cultura italiana e all'intellettuale vicino al fascismo, nato a Sassari e protagonista delle più grandi correnti artistiche della prima parte del Novecento - è dedicata la grande retrospettiva al Complesso del Vittoriano, curata da Elena Pontiggia, in collaborazione con l'Archivio Sironi, fino all'8 febbraio 2015.
Con più di cinquanta opere, provenienti dai più importanti musei pubblici e da collezioni private, la mostra, la cui organizzazione generale è di Comunicare Organizzando, parte dall'iniziale momento simbolista - prima dell'epoca futurista e metafisica - passando per gli anni Venti, quando Sironi, tra i fondatori del Novecento italiano, dipinge L'architetto, uno dei suoi capolavori, esposto alla Biennale di Venezia nel 1924.

Ed è durante questo periodo che il sardo adottato dalla Città Eterna, memore del Divisionismo, comincia a sperimentare una propria pennellata spezzata e filamentosa. Così come lo è la sua fragile interiorità. Ma la linea del disegno è lucida e continua, sempre marcata, e non ostacola la creazione di un mondo di parallelepipedi dalle grigie volumetrie. Nel percorso espositivo, ampio spazio è riservato, infatti, anche al ciclo Paesaggi urbani, dove quell'artista dall'incessante ricerca spaziale, libero da accademici cliché, obbedisce alla geometria, ma soffoca la prospettiva.

«La pittura di Sironi - sottolinea la curatrice - è anche una lezione di grandezza: tragedia, cioè drammaticità, tensione, espressionismo, romanticismo e grandezza, cioè forza, equilibrio, solennità e classicità». E come, dunque, non definire «tragica» e «grande» anche la sua attenzione alle città? Sironi comincia a ritrarle - futuristicamente - durante il suo breve soggiorno a Milano nel 1914 e continuerà a ritenerle soggetti privilegiati fino agli anni Quaranta, perché gli si mettono in posa, mostrando già le prime crepe: le loro malinconiche periferie, ultimo avamposto anche dell'anima, disegnate con psichedelica alternanza di rette verticali e orizzontali che vanno a definire uno skyline unico. È una gabbia, una ragnatela di linee, all'interno delle quali rimane incastrato anche lo stesso artista-aracne, che, nella ricerca di immobilizzare lo spazio, tenta di uccidere anche il tempo. Il medico del vuoto interiore che è Sironi - spesso reso con tutta la gamma dei colori freddi - emerge anche nelle opere del secondo Dopoguerra e nelle Apocalissi, uno dei suoi ultimi cicli pittorici, destrutturate e frantumate immagini di un impero in rovina, che ci appare quasi un lavoro profetico e ci consegna un testamento spirituale sull'universale tragedia esistenziale. Testo di Rosa Maria Ciulla, foto Pepi

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