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Napolitano, i verbali della deposizione: "Le stragi di mafia erano un ricatto"

La Corte d'Assise di Palermo ha depositato le trascrizioni del verbale dell'udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia in cui ha deposto il capo dello Stato Giorgio Napolitano. Ecco il testo

PALERMO. La Corte d'Assise di Palermo ha depositato le trascrizioni del verbale dell'udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia in cui ha deposto il capo dello Stato Giorgio Napolitano. Da questo momento le trascrizioni sono disponibili per accusa e difese.

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Era stato lo stesso capo dello Stato ad auspicare tempi brevi. La procedura è stata curata dal presidente della Corte d'assise, Alfredo Montalto, cui sono state consegnate ieri le registrazioni dell'incontro al Quirinale. Di solito il servizio di trascrizione richiede cinque giorni, quindi dovrebbe slittare alla settimana prossima, ma vista la straordinarietà del teste ci sono stati tempi record.

"D'Ambrosio non mi preannunciò né la lettera, né le dimissioni. Era preso da questa vicenda, era anche un po' assillato da queste telefonate, punto e basta". Lo ha detto il presidente della Repubblica al processo sulla trattativa Stato-mafia, rispondendo alla domanda sulla lettera ricevuta dall'ex consigliere giuridico Loris D'Ambrosio, in cui questi preannunciava le sue dimissioni. Napolitano descrive un D'Ambrosio "insofferente" dopo "la pubblicazione delle sue telefonate con Mancino. "Io non ho mai conosciuto il dottor D'Ambrosio fino al 1996, non ho mai avuto occasione di incontrarlo, di conoscere, né per la verità ho avuto occasione di sentirne parlare, sia pure attraverso persone che lo conoscessero bene e che conoscessero bene me". "Debbo dare, se può interessare alla Corte, signor Presidente, un certo peso al fatto che - aggiunge il capo dello Stato - nel corso della mia lunga attività parlamentare, ho detto che ero alla settima legislatura nel 1987, i miei interessi si erano sempre concentrati su due filoni tematici: Economia e Mezzogiorno da un lato e Affari Esteri, Politica Internazionale dall'altro. Io dal 1953 avevo sempre fatto parte o della Commissione Finanza e Tesoro o della Commissione Bilancio e Partecipazione Statali, mai della Commissione Affari Interni, mai della Speciale Commissione Parlamentare Bicamerale Antimafia. Come accade in un grande gruppo politico, c'è naturalmente una divisione del lavoro, che tiene anche conto delle propensioni, delle competenze, e le mie propensioni e competenze non mi avevano mai portato a contatto con l'attività tutt'altra del Dottor D'Ambrosio. Lo conobbi - aggiunge Napolitano sempre parlando di D'Ambrosio - dopo essere diventato Ministro degli Interni del primo Governo Prodi, nel maggio del 1996, un po' dopo lo conobbi, in quanto come sempre il Ministro dell'Interno ha rapporti di collaborazione anche... Di collaborazione stretta nel senso che possono prendere insieme l'iniziativa di determinati Disegni di Legge. Ministro della Giustizia Flick, e fu sicuramente il Professor Flick che mi presentò il dottor D'Ambrosio, non saprei dire in quale mese del 96 o del 97, comunque comincia solo allora il mio rapporto di conoscenza con il dottor D'Ambrosio".

Loris D'Ambrosio non aveva assolutamente preannunciato l'intenzione di dimettersi ne' la famosa lettera al presidente che fu per Napolitano "un fulmine a ciel sereno". Lo spiega lo stesso Giorgio Napolitano secondo le trascrizioni dei verbali della testimonianza resa al Quirinale. D'Ambrosio, ha detto il capo dello Stato, "mi aveva solo trasmesso un senso di grande ansietà e anche un po' di insofferenza per quello che era accaduto con la pubblicazione delle intercettazioni di telefonate tra lui stesso e il Senatore Mancino, insofferenza che poi espresse più largamente nella lettera. Non mi preannunciò né la lettera, né le dimissioni. Era diciamo preso da questa vicenda, era anche un po' assillato da queste telefonate punto e basta. Poi la lettera per me fu un fulmine a ciel sereno, ne rimasi molto colpito, ci riflettei e il giorno dopo, il giorno dopo subito lo pregai di venire nel mio ufficio, avendo già redatto una risposta che gli consegnai. Ho voluto pubblicare questi testi perché, diciamo, è mia linea di condotta il rispettare rigorosamente tutte le regole che sono poste a presidio dell'esercizio da parte del Presidente della Repubblica delle sue prerogative, quindi rispettare tutti i vincoli di riservatezza che da ultimo sono stati anche molto efficacemente ricapitolati e puntualizzati nella sentenza 1/2013 della Corte Costituzionale. Ma nello stesso tempo - ha aggiunto Napolitano - dare il massimo di motivazione pubblica di ogni mia scelta, in tutte le circostanze si sia trattato di crisi di Governo, si sia trattato di nomine, ho creduto che non fosse assolutamente contrastante con l'abito di riservatezza del Presidente della Repubblica, dare trasparenza".

"Sono convinto che la tragedia di via D'Amelio rappresentò un colpo di acceleratore decisivo per la conversione del decreto legge 8 giugno '92 sul carcere duro", ha detto il capo dello Stato, durante la deposizione. Al pubblico ministero Nino Di Matteo che gli chiedeva se ci fosse stato un dibattito politico sulla conversione del dl che introduceva il 41bis per i mafiosi, il capo dello Stato ha risposto: "Non credo che nessuno, allora, pensò che in una situazione così drammatica si potesse lasciare decadere il decreto alla scadenza dei 60 giorni, per poi rinnovarlo". "Ci fu la convinzione - ha aggiunto Napolitano - che si dovesse assolutamente dare questo segno all'avversario, al nemico mafioso".

"Non ho mai avuto un colloquio con il Generale Mori, mai". "Subranni - afferma il Capo dello Stato - non ricordo di averlo mai conosciuto e il Generale Mori o Colonnello Mori l'ho conosciuto di sicuro soltanto ai margini di cerimonie a cui io partecipavo nell'esercizio di varie mie funzioni e lui egualmente partecipava".

Fu l'allora presidente della commissione Antimafia, Luciano Violante, a informare il capo dello Stato Giorgio Napolitano, all'epoca presidente della Camera, che il mafioso Vito Ciancimino voleva essere ascoltato dalla commissione Antimafia. Lo dice, al processo sulla trattativa Stato-mafia, Giorgio Napolitano. "Può anche avermene parlato - ha risposto Napolitano - ma non perché io mi pronunciassi".

Con le bombe del '93 ci fu un ricatto della mafia? "Ricatto o addirittura pressione a scopo destabilizzante di tutto il sistema". Così Napolitano rispondendo al pm Di Matteo. L'aut-aut poteva "avere per sbocco la destabilizzazione politico-istituzionale del paese". "Probabilmente presumendo che ci fossero reazioni di sbandamento delle Autorità dello Stato". "Quando il presidente del Consiglio (Ciampi - ndr) dice 'abbiamo rischiato un colpo di Stato' se non c'è allora fibrillazione vuol dire che il corpo non risponde a nessuno stimolo". Lo ha detto, al processo sulla trattativa Stato-mafia, il capo dello Stato, rispondendo alle domande del pm sulle fibrillazioni istituzionali seguite alle stragi del '93. Napolitano ha ricordato il blackout a Palazzo Chigi, ad agosto, definendolo "un classico ingrediente di colpo di Stato".

Deponendo al processo sulla trattativa Stato-mafia, Napolitano ha riportato la percezione che le istituzioni ebbero dopo le bombe mafiose del 1993 a Roma, Firenze e Milano, sostenendo che l'impressione fosse che "si trattava di nuovi sussulti di una strategia stragista dell'ala più aggressiva della mafia, si parlava allora in modo particolare dei Corleonesi". Per il Presidente della Repubblica le cosche, oltre a volere ottenere un alleggerimento nelle misure carcerarie puntavano ad una "destabilizzazione politico-istituzionale del Paese". "Comunque - ha aggiunto - non ci fu assolutamente una sottovalutazione. C'era molta vigilanza, molta sensibilità e molta consapevolezza della gravità di questi fatti". Alla richiesta di precisazioni del pm se fosse definibile la strategia mafiosa come un ricatto, Napolitano ha risposto: "un ricatto o addirittura pressione a scopo destabilizzante di tutto il sistema".

Il capo dello Stato Giorgio Napolitano accolse "con assoluta imperturbabilità" la notizia, riferitagli nel '93 dal capo della Polizia, di un allarme attentato ai suoi danni. "Non mi scomposi minimamente, anche perché ho sempre considerato che servire il Paese significa anche mettere a rischio ipotesi di sacrificio della propria vita e guai a farsi condizionare da reazioni di timore o di allarme personali". Napolitano ha riferito di non avere avuto notizia del rischio dai Servizi segreti, con cui non aveva alcuna interlocuzione, ma dal capo della Polizia. "Mi informò - ha detto - che c'era questa notizia, che i Servizi la consideravano una cosa da prendere con molta cautela, ma non palesemente incredibile". Il capo della Polizia, Vincenzo Parisi, ha aggiunto Napolitano, "mi disse che il carattere di consistenza della fonte confidenziale dei Servizi era tale che non mi chiedeva di annullare il viaggio a Parigi". In quell'occasione Napolitano, in vacanza nella capitale francese, fu però accompagnato dagli agenti speciali del Nocs. "Al ritorno da Parigi - ha concluso - non fui sottoposto a nessuna ulteriore e speciale misura di protezione. Poi si è letto che ad un certo momento, per vari motivi, quei progetti erano svaniti".

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