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Chirurgia estetica, quando il «ritocco» cambia il volto dell’attrice famosa

"Qualsiasi intervento rende il corpo uno strumento di comunicazione con una profonda influenza sulla psiche"

PALERMO. Il corpo vede, sente, parla, rivela, trasmette messaggi, si fa leggere. A volte, però, mente. Perché alla bellezza non si rinuncia, neppure in condizioni estreme. Nell'Afghanistan talebano, a Kabul, proliferavano i saloni di bellezza clandestini: significava rischiare la vita una volta a settimana per una messa in piega come si deve. E anche le donne che sigillavano i loro visi dietro la mascherina a rete del burqa non mancavano di darsi un po' di fard, quasi fosse una pratica identitaria segreta, che le faceva sentire più forti per sopportare la violenza.

Bellezza come resistenza: e la lezione arriva da donne alle quali crediamo di dover insegnare tutto, democrazia, emancipazione e tacco 12. Non ce ne accorgiamo ma anche nel mondo occidentale la lotta per la bellezza è segreta e clandestina. Quante sono le donne disposte ad ammettere una tirata o un ritocchino, indispensabile operazione per non «scomparire» socialmente?

Non lo ha ammesso René Zellweger che s'è presentata sul red carpet degli «Elle Women in Hollywood Awards», a Beverly Hills, trasformata. «Sarà lei?», mormorava la gente attorno. «Che diavolo avrà fatto?», si chiedevano i fans, guardando sgomenti quella riproduzione di un modello unico: fronte liscia, occhi più larghi, sopracciglia più alte, assenza delle guanciotte tenere e paffute: quella figura bella e longilinea, capelli sciolti, tacchi vertiginosi, mini dress nero, immortalata dall'obiettivo dei fotografi non aveva più nulla a che spartire con l'irresistibile beniamina delle single instabili e insoddisfatte: Bridget Jones.
È un attimo, e sull'attrice quarantacinquenne piomba addosso come una mannaia l'accusa di tradimento nei confronti di quel personaggio. Un'esagerazione: ogni donna merita di poter scegliere di fare ciò che crede con la propria faccia e il proprio corpo senza essere punita.
Caro diario, voglio essere diversa, avrà scritto Renée, non Bridget. E il ritocchino non l'avrà confessato neppure a quelle pagine private. «Sono solo più felice», ripete nelle interviste. E, non contenta, sbandiera la presunta estrema felicità: «Sono diversa perché la mia vita è migliore».

Le malelingue raccontano di zigomi nuovi di zecca, botox sulla fronte, liposuzione, palpebre e seno rifatto, e lei imperterrita: «Sono compiaciuta che la gente mi veda in modo diverso. Sono più calma, bado alla casa e ho al mio fianco un uomo che mi ama». Insomma, felicità uguale bellezza: o viceversa? Dove finisce la libertà e comincia l'angoscia nei confronti della dittatura della bellezza e del terrore della vecchiaia? Di sicuro la mistica del giovanilismo infinito è stancante, e insopportabile, quasi quanto la retorica del «quel che conta è essere belle dentro».

«Dietro alle trasformazioni radicali - spiega il chirurgo plastico Carlo Di Gregorio - ci sono spesso altre problematiche. Qualunque trattamento si decida di eseguire va discusso, approfondito, spiegato, è fondamentale la condivisione tra ciò che il medico può dare e ciò che la paziente desidera. Oggi la chirurgia plastica è più orientata verso un'idea di cura, il concetto di trasformazione radicale è superato, così come è vietato assecondare richieste bizzarre. A fronte di casi eclatanti che fanno notizia, però, ce ne sono altri che danno risultati gradevoli, cioè visi curati e non gonfi. Oggi i trattamenti sono meno aggressivi e con tempi di recupero più rapidi. L'idea è quella di migliorare non di trasformare e il filler non serve a riempire ma a riposizionare i tessuti».

Nessun giudizio di valore, sulla scelta di Renée, sono numerose le apostole del bisturi: Cher, Anderson, Ryan, Griffith hanno perso la loro fisionomia a furia di farsi ritagliare. Eppure negli States - a New York, su Park Avenue, si affacciano gli studi dei big della chirurgia estetica mondiale - Julia Roberts, 47 anni un paio di giorni fa, risponde così alla collega: «Io voglio invecchiare e dico no alla chirurgia plastica». Fa perfino business: «L'ho detto ai manager della Lancome: voglio essere un modello di donna che invecchia». E annuncia, solenne, che la bellezza è far perdere peso alle cose. Non ai corpi, dunque: ed è già una bella rivelazione. Ma falsa. Nella vecchia Europa le danno una mano le attrici inglesi Kate Winslet, Emma Thompson e Rachel Weisz, fondando quella che a Hollywood sarebbe la lega più improbabile, perché contro la chirurgia estetica: la crociata sembra più una sfida etica.

Riprende Di Gregorio: «Esiste una profonda differenza tra la cultura statunitense e quella europea. Più frequentemente nel mondo dello spettacolo americano si preferiscono interventi drastici, in Europa invece abbiamo un approccio più soft». La faccenda della bellezza alimenta una gran confusione perché è un business conteso tra due narrazioni: da una parte una sirena ti invita a spassartela con le infinite opportunità che il supermarket della bellezza offre per rimanere giovane, dentro un harem immateriale che serve a incorniciare la bellezza, a condannare la maturità e a colpevolizzarti se scegli di mantenere la tua impertinente pappagorgia; dall'altra un moralismo risentito ti ingiunge di resistere a oltranza con i tuoi espressivi salsicciotti sui fianchi, parte irrinunciabile della tua individualità.

Certo è che per le prigioniere del mito del forever young il lavoro è full time, con la bellezza non si scherza: hai appena sistemato il seno e cede l'interno braccia, hai riempito i solchi ai lati del naso e ti si increspa la fronte, hai ceduto a una cena e ora devi saltarne tre. Qualsiasi intervento rende il corpo uno strumento di comunicazione con una profonda influenza sulla psiche. Ci sono interventi tecnicamente riusciti ma fallimentari psicologicamente: «Sì, può succedere, soprattutto quando le aspettative della paziente non sono realistiche, o noi medici non siamo stati capaci di spiegare bene i risultati che si sarebbero ottenuti, anche se ormai è difficile perché lavoriamo con l'ausilio di immagini precise. Mi batto per eliminare le operazioni invasive, quelle che maggiormente possono creare disagi psicologici: ciò che conta è la manutenzione ordinaria dei tessuti della pelle» afferma Di Gregorio. E conclude: «Quando si incontra una donna che si è sottoposta a un intervento mi piace che le si dica: "ti trovo bene" e non "che cosa hai fatto?"».

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