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Comunione ai divorziati risposati, la Chiesa e quella voce di misericordia

La Chiesa si interroga. È questo il significato dei lavori del Sinodo sulla famiglia, iniziati una settimana fa e di cui ha fatto la sintesi una relazione presentata ieri all'assemblea dal cardinale Erdö. Su di essa i padri sinodali si confronteranno in gruppi più ristretti, per preparare il testo finale da consegnare entro domenica al Papa.

«Non si tratta di decisioni prese», precisa il documento. Si coglie, tuttavia, l'esigenza della Chiesa di far fronte al «crescente pericolo rappresentato da un individualismo esasperato che snatura i legami familiari e finisce per considerare ogni componente della famiglia come un'isola (...), un soggetto che si costruisce secondo i propri desideri assunti come un assoluto». È in gioco l'umanità degli esseri umani, non la loro fede.

«In questo contesto la Chiesa avverte la necessità di dire una parola di speranza e di senso», e lo fa allargando le proprie braccia, come quelle di Cristo sulla croce, per accogliere persone che in vario modo sono rimaste ferite dal fallimento o dalle distorsioni della loro vita affettiva. Non per nulla un termine che più volte ritorna, nel documento - come era risuonato nel dibattito - , è «misericordia».

Nasce da qui l'esigenza di «scelte pastorali coraggiose» che, senza annacquare il rigore e la serietà della visione cristiana del matrimonio, consentano però di valorizzare le inquietudini e i desideri di ritorno alla pienezza della vita ecclesiale di quelle persone, offrendo loro la possibilità di fare un percorso graduale verso una reintegrazione della loro dimensione umana e cristiana.

Misericordia non è buonismo. Tanto meno essa può derivare dall'idea, assurdamente attribuita da Eugenio Scalfari a Papa Francesco, che il peccato non esiste. Interpretare in questa direzione lo sforzo di apertura del Sinodo, oltre che comportare una evidente contraddizione (la misericordia è richiesta appunto perché ci sono dei peccatori), significherebbe non comprendere nulla di ciò che sta accadendo. Non si tratta di tornare indietro, rinnegando posizioni ben consolidate nella tradizione cristiana, ma di andare avanti, sforzandosi di farvi accedere in qualche modo, in una progressione graduale, anche chi non è in condizione di viverle pienamente, di uscire, insomma, dalla logica del «tutto o niente». Perciò - si dice nella relazione - «la Chiesa si volge con rispetto a coloro che partecipano alla sua vita in modo incompiuto e imperfetto, apprezzando più i valori positivi che custodiscono, anziché i limiti e le mancanze».

La prima esigenza emersa unanimemente dal Sinodo è quella di «un impegno maggiore di tutta la comunità cristiana per la preparazione dei nubendi al matrimonio». I disastri che si verificano nascono in gran parte dal fatto che ci si «sposa in chiesa» senza una profonda consapevolezza della radicalità umana e cristiana che il matrimonio comporta. Per questo di fatto ci sarebbe da chiedersi se molte unioni, mancando del requisito di questa coscienza, non siano nulle in partenza. E non a caso nel Sinodo si è rilevata la «necessità di rendere più accessibili ed agili le procedure per il riconoscimento dei casi di nullità».

Un'altra esigenza è stata quella di «cogliere la realtà positiva dei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, delle convivenze», per accompagnare le coppie ad un percorso di riscoperta del sacramento nuziale. A questo proposito i padri sinodali hanno denunziato il fatto che spesso «sposarsi è un lusso, cosicché la miseria materiale spinge a vivere in unioni di fatto».

Uno dei punti focali del dibattito svoltosi finora e ripreso nella relazione del cardinale Erdö è l'ipotesi dell'accesso ai sacramenti per i divorziati risposati. Esso però dovrebbe essere «preceduto da un cammino penitenziale sotto la responsabilità dal vescovo diocesano, e con un impegno chiaro in favore dei figli». Si tratterebbe, peraltro, «di una possibilità non generalizzata, frutto di un discernimento attuato caso per caso». Non si mette in questione, dunque, l'indissolubilità del matrimonio, ma si ipotizza il perdono per chi si mostri consapevole della colpa commessa violandola.

Sulla questione dell'omosessualità il Sinodo ribadisce la piena adesione della Chiesa all'idea che la sessualità non possa essere il frutto di scelte puramente soggettive. Perciò nel documento si sottolinea che «le unioni fra persone dello stesso sesso non possono essere equiparate al matrimonio fra uomo e donna. Non è nemmeno accettabile che si vogliano esercitare pressioni sull'atteggiamento dei pastori o che organismi internazionali condizionino aiuti finanziari all'introduzione di normative ispirate all'ideologia del gender». Tuttavia si dice anche che «vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partner» e che «la Chiesa ha attenzione speciale verso i bambini che vivono con coppie dello stesso sesso, ribadendo che al primo posto vanno messi sempre le esigenze e i diritti dei piccoli». Si aggiunge, inoltre, che «le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana» e invita i credenti a domandarsi se sono «in grado di accogliere queste persone, garantendo loro uno spazio di fraternità nelle nostre comunità». Non è un cambiamento di dottrina, ma di approccio e di stile. E questo è importante.

Sì, la Chiesa si interroga. Forse a qualcuno questo farà piacere, a qualcun altro no. È un fatto e fa riflettere, però, che da un'istituzione vecchia di oltre duemila anni venga una lezione di coraggioso confronto, al suo interno e con la realtà. Di questo bisogna darle atto, si sia credenti oppure no.

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