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La Morte di Elio Carlotti

Ho fatto le superiori al Garibaldi. Lui insegnava Latino e Greco in una sezione diversa dalla mia, ma tutti lo conoscevamo e riconoscevamo per la figura inconfondibile: sempre con un vestito scuro, cravatta, incedere eretto, un po’ rigido, mai un sorriso per nessuno, ma circondato da grande rispetto. Noi ragazzi, almeno, lo vedevamo così. Diversissimo dal mio prof di Latino e Greco, Vito Muciaccia, l’emblema della mitezza e dell’attenzione per tutti, ma col tempo avrei capito che i due erano molto più simili di quanto potessi immaginare. Finita l’Università, fatto il Servizio Militare, cominciai ad insegnare Latino e Greco anch’io e, senza che me lo aspettassi, lo incontrai come Preside del Liceo Garibaldi di Partinico, dove avevo solo poche ore di servizio. Mi accolse con un sorriso sornione e mi chiese: “Così giovane e già così sposato”? Capii che, pur senza dilungarsi in frasi di circostanza, esprimeva così un qualche benevolo apprezzamento. Fu un anno importante, in una scuola con tutti i problemi di quel tempo (allora mi sembravano gravi, ma è ben poca cosa se li paragoniamo a quelli dell’oggi), soprattutto dovuti al continuo cambiamento dei docenti che aspiravano ad avvicinarsi a casa e si spostavano spesso ad anno scolastico iniziato (Il Provveditorato non è mai stato ammalato di fretta, né tanto meno lo era il Ministero). Eppure non lo sentii mai lamentarsi: era troppo preso dalla voglia di far funzionare al meglio la scuola, con il personale disponibile. E con la sua guida ed una presenza forse imbarazzante: cambiava le lampadine che si bruciavano, ma entrava anche in classe a sostituire i prof assenti, e nelle ore di supplenza non faceva solo lezione di Latino e Greco, ma di Italiano, Filosofia e, perché no, Matematica, Fisica o Scienze, lasciando alunni (e docenti) a bocca aperta. Le lampadine preferiva cambiarle a lezioni finite. Faceva lui l’orario, le sostituzioni, aiutava il Segretario, guidava i bidelli, non riposava mai. Arrivava per primo e se andava per ultimo, spesso chiudendo le luci ed il cancello. Straordinario, certo, ma comunque poteva farlo perché era una piccola scuola. E invece no. Di lì a poco lo ritrovai al Vittorio Emanuele II di Palermo (ancora una volta avevo un incarico di poche ore, il resto lo facevo al Garibaldi di Palermo), e poi, ancora solo due anni dopo, quando mi fu data come sede definitiva di vincitore di concorso a cattedre di Latino e Greco quella del Vittorio a Palermo, avrei scommesso che la collaborazione sarebbe durata per molti, molti anni. Al Vittorio c’erano docenti di straordinaria levatura culturale, molti dei quali suoi amici personali oltre che colleghi di Università. C’era un’utenza formata da famiglie motivate e consapevoli di far affrontare ai propri figli studi impegnativi e di alto livello, in cambio di una preparazione eccellente. Insomma, tutte le pedine sembravano essere al posto giusto. Lui era il primo ad esserne convinto, ma tutto precipitò in pochissimo tempo. Uomo incapace di sfumature, esigeva il massimo sia sul piano della preparazione che, soprattutto forse, su quello del comportamento in classe con gli alunni. Era infastidito da quelle che gli sembravano gigionerie o indebiti privilegi: non rispettare la pienezza dei doveri scolastici (la puntualità, i tempi di consegna di quanto richiesto dalle circolari, la compilazione dei registri, la giustificazione tempestiva delle assenze, l’assegnazione di voti a volte ritenuti eccessivi, assegnati forse per  esibirli come trofei del docente, e mille altre piccole e grandi cose del genere). Per non parlare dei comportamenti di molti docenti nei confronti degli alunni (correzione dei compiti in classe dopo lunghi giorni o mesi di attesa, interrogazioni solo a fine trimestre, valutazioni discutibili, fissazione delle interrogazioni d’accordo con i ragazzi). Non c’era amicizia che tenesse: cominciarono gli scontri, e furono durissimi. Qui il carattere inflessibile dell’uomo non lo aiutò a capire le ragioni degli altri, a rispettarne il vissuto e accostarsi alle loro problematiche familiari. In un mondo costruito come una aguzza piramide, al cui vertice stava la Scuola e l’interesse-dovere di fornire agli alunni il prodotto migliore possibile, non c’era spazio per la mediazione. E bisogna dirlo: dall’altra parte il suo atteggiamento venne vissuto come una offesa, e scatenò una reazione uguale e contraria: i “buoni” contro il “cattivo”, il cerbero, il nemico. Appena arrivato al Vittorio da vincitore di cattedra fui “chiamato alle armi”, ma mi rifiutai di combattere una guerra che non mi apparteneva. Per Carlotti avevo non solo stima, ma affetto, per gli altri stima e amicizia. Avrei voluto creare i presupposti di un riavvicinamento che non ci fu: erano andati tutti troppo avanti. Successe l’inevitabile: il Preside chiuso in presidenza a sbrigare la normale amministrazione, ma di fatto fuori dalla vita dell’Istituto, gli altri (docenti ma anche personale di segreteria, bidelli e studenti) sbandati e senza guida. Durò così fin quando lui non decise di andarsene, di passare da un liceo classico all’altro (non è stato il preside dei licei classici di Palermo per scelta, ma perché così sottolineava paradossalmente l’impossibilità di fare davvero il Preside in una scuola). Troppo radicale? Forse, ma l’uomo era questo. Con i suoi eccessi nel bene e nel male, ma con un progetto di impegno e di lavoro che non chiedeva nulla per sé e dava tutto per i giovani e per la Scuola. Trovatemelo oggi, un Preside così. Era duro, a volte aggressivo, mai incline al compromesso o ai favoritismi (quante volte lo accusarono proprio di avere i suoi protetti, dimenticando che i cosiddetti nemici erano stati i suoi primi amici!). Ma era anche tenero e generoso con chi faceva sino in fondo il suo dovere, pronto a consigliare, a sostenere, ad aiutare. Non trattava le persone a seconda della tessera di partito o ideologia (eppure lui aveva le sue ide di cattolico all’antica, ben radicate), ma per senso del dovere, per impegno reale, per generosità. Sognava di poter realizzare una scuola al limite della perfezione non per averne lustro personale, ma per fare bene e fino in fondo tutto quel che riteneva andasse fatto. Non è un caso se lo hanno amato di più i bidelli e gli studenti che non i colleghi. Da lui non dovevi aspettarti la pugnalata alle spalle: anzi, a volte era fin troppo “pubblico” nel richiamare duramente chi non faceva il proprio dovere o mascherava i propri limiti con parole altisonanti ma false. Se da una classe provenivano schiamazzi, entrava senza bussare e riprendeva il docente davanti agli alunni: c’è qualcosa di più politicamente scorretto? Ma a lui non interessava altro che il buon andamento della scuola: sapeva giudicare tutti i docenti prima come persone, poi come tecnici della disciplina. La sua curiosità intellettuale era sconfinata, come la sua preparazione, ma non voleva la perfezione, solo che ognuno desse tutto quel che aveva. Non c’era posto per le prime donne o per chi volesse vivere di rendita: in questo ingranaggio però, e questo era un grave difetto, a volte incappavano anche ottimi docenti e ottime persone. Sarebbe bastato poco per correggere errori così gravi, ma anche lui aveva i suoi difetti. Però di una cosa sono sicuro: onestà, competenza, senso della giustizia, disinteresse personale, dedizione assoluta ne facevano una persona unica, la cui perdita segna un ulteriore impoverimento della cultura e della scuola palermitana. E per chi, come me, da lui ha imparato tanto, e gli ha voluto bene, credo ricambiato, il senso della mancanza durerà molto, molto a lungo.
Roberto Picone    
     

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