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Mostre, a Roma i capolavori del Museo d’Orsay

Al Vittoriano sono arrivate sessanta tele dall’ex stazione parigina che il genio di Gae Aulenti trasformò in uno dei più suggestivi spazi espositivi al mondo

PALERMO. Da «Gare» a «Musée». La prima sezione dell'esposizione Musée d'Orsay- Capolavori, al Complesso del Vittoriano fino all'8 giugno, è dedicata ad una storia di rinascita di una dismessa stazione ferroviaria al centro della città di Parigi. È una rinascita che passa per l'arte e per una grande firma dell'architettura italiana. «Stiamo vivendo la nostra attualità come un continuo superamento: di ideologie, innanzitutto, ma anche di forme e di critiche», amava ripetere, a proposito, l'architetto Gae Aulenti, scomparsa recentemente, cui l'esposizione rende anche omaggio, impegnata negli anni Ottanta nella ristrutturazione di quello che poi diverrà il Museo d'Orsay, tra i più importanti templi dell'arte moderna e scrigno di tesori unici al mondo, con oltre tre milioni di visitatori l'anno.
La mostra, nata sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana e realizzata da Comunicare Organizzando, ha portato per la prima volta a Roma una selezione di oltre sessanta opere che dalla pittura accademica dei Salon attraversa la rivoluzione dello sguardo impressionista fino ad arrivare al Puntinismo, alle soluzioni formali dei Nabis e dei Simbolisti.
Al momento della sua inaugurazione nel 1986, la raccolta del Musée d'Orsay, infatti, abbracciava il periodo che va dal 1848 al 1914: è il momento storico in cui l'arte non si limita più a rappresentare, bensì, potente forza creatrice, diviene un tentativo di superamento dell'esperienza di un mondo che stava conoscendo veloci mutamenti. Se è, quindi, vero che l'Ottocento sta alla Francia come il Rinascimento all'Italia, l'esposizione, articolata in cinque sezioni, curata da Guy Cogeval, presidente dei Musées d'Orsay, e da Xavier Rey, direttore delle collezioni e conservatore del relativo dipartimento di pittura, mette in evidenza come la varietà di stili pittorici coesistano, rivaleggino e si contaminino reciprocamente.
Si snodano uno dietro l'altro, infatti, capolavori, spesso rimasti ingabbiati nell'eterna dialettica tra «Academic» e «Refusés»: Gauguin, Monet, Degas, Sisley, Pissarro, Van Gogh, Manet, Corot e Seurat e molti altri sono pittori liberi dal disegno, ma arditi nel colore. Prediligono la semplificazione delle forme dando priorità al dinamismo dell'insieme.
Allo stile accademico di Cabonal (la sua Tamara è una vera e propria messinscena teatrale), viene contrapposto nella stanza accanto il Realismo provocatorio della Donna nuda con cane di Courbet, seguito poi, dalle ancora romantiche vedute della Scuola di Barbizon, con la pittura en plein air. Da qui è tutto un articolarsi di diverse forme e linee originali, da quelle marcate di Manet a quelle impalpabili di Monet, fino all'esplosione delle campiture gialle, quasi irreali, ne L'Italiana di Van Gogh: le sue pennellate irruenti seguono un unico registro espressivo, quello del segno e del colore. Siamo già alle porte del Novecento e il soggetto comincia a perdere di consistenza: Seurat arriva a rendere evanescente il soggetto da rappresentare ed è così che il Giovane contadino in blu è costituito ormai da puntini che scompongono e ricompongono l'insieme. Al di là degli aspetti materiali e visibili del mondo esterno, poi si inserisce la rivoluzione di Gaugin, amplificata dal suo viaggio a Tahiti: ne Il pasto lo sguardo fisso e assente dei tre bambini pretende di esprimere realtà più profonde, proiettando il pensiero nell'universo dell'interiorità.

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