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Per la vita, che faccio?

Le cifre sono agghiaccianti: tre ragazzi morti in una sola settimana – 17, 19 e 22 anni! -, diciannove dall’inizio dell’anno, tutti in città, vittime di meccanismi assurdi che, a Palermo, costituiscono la normalità e nei cui confronti è venuto il momento di ribellarci, se vogliamo rompere questa tragica serie. Sì, è il momento di ribellarci, in primo luogo, alla latitanza di controlli che fino ad oggi ha reso possibile, a chi viola le regole, una sostanziale impunità, incentivando la voglia di trasgredirle in chi si proponeva di rispettarle.



In questa città si può guidare col telefonino incollato all’orecchio senza tema di essere fermati; ci si può arrestare di colpo, anche in una corsia che non consente il passaggio a più di un’auto per volta, costringendo i malcapitati che vengono dietro a manovre problematiche per proseguire; si può posteggiare sistematicamente in seconda fila, bloccando chi deve uscire; si può sbucare da una traversa ignorando le precedenze e mettendo a rischio la propria e altrui incolumità. Senza dire che la grande maggioranza delle strisce pedonali è da tempo praticamente invisibile, trasformando l’attraversamento di molte arterie a grande traffico in una pericolosa avventura.  Un ruolo tristemente prioritario, in questo quadro, spetta a motorini, motociclette e anche bici, spesso guidati da giovani e giovanissimi, che sciamano da ogni parte, sorpassano da destra, tagliano la strada agli altri automezzi, apparentemente ignari dell’esistenza di un codice stradale.



Siamo lieti di apprendere che, ultimamente, in alcuni snodi strategici sono state installate delle telecamere per individuare i «furbetti», siano essi automobilisti o motociclisti. Daranno sicuramente un contributo a conferire al traffico cittadino un andamento che ricordi un po’ meno il Far West. Ma il problema è più di fondo. Riguarda il rapporto tra le forze dell’ordine, a tutti i livelli, e il territorio, un rapporto la cui cronica carenza si manifesta anche sotto il profilo dell’indisciplina nelle strade. Riguarda, soprattutto, una cultura della legalità, la cui altrettanto cronica assenza vanifica anche le regole del codice. Riguarda, insomma, uno stile di comune civiltà, indispensabile perché la convivenza tra le persone non sia governata dall’arbitrio e dalla violenza – anche il traffico, da noi, sembra esserne impregnato! – ma dal rispetto reciproco.



Non si può pensare, però, che questa cultura venga creata solo da un pur necessario «giro di vite» da parte di chi deve regolare il traffico. La repressione non è mai stata in grado di cambiare un costume, e qui è proprio di questo che si tratta. Davanti a questi giovani che muoiono, schiantandosi con i loro mezzi in una corsa sfrenata o travolti da altri, dobbiamo chiederci che tipo di educazione riusciamo a dare ai nostri figli, ai nostri alunni, ai ragazzi del catechismo, riguardo a valori semplici, da cui dipendono gli atteggiamenti quotidiani, per strada e altrove: l’attenzione per gli altri, la disponibilità a riconoscere i loro diritti e i propri torti, la rinunzia all’affermazione selvaggia di se stessi.
Forse dovrebbe far parte di questa educazione anche una riflessione sull’uso del tempo. Viviamo in una società dominata dalla fretta. La velocità è diventata un requisito indispensabile di ogni attività.


Corriamo dalla mattina alla sera, in una frenetica gara ad ostacoli. Forse lo facciamo perché abbiamo paura, fermandoci, di scoprire che non abbiamo una vera meta. Le cose che ci premeva tanto raggiungere, quando le abbiamo finalmente ottenute, perdono il loro interesse e non ci bastano più. Gli obiettivi che perseguiamo sono dei mezzi in vista di altri, che a loro volta sono funzionali ad altri ancora, e così via. Ma spesso ci siamo dimenticati di chiederci qual è il fine che dà senso a questa corsa. Pascal paragonava gli uomini a cacciatori che inseguono affannosamente una lepre di cui, in realtà, non amano affatto la carne e che non accetterebbero se fosse loro regalata, perché ciò che conta, per loro, è stordirsi nell’ebbrezza della caccia.



Oggi, sul modello di noi adulti, i giovani corrono. Forse lo fanno per sfuggire al pensiero che non li attende alcuno spazio sul mercato del lavoro, che il loro impegno a scuola o all’università non ha sbocchi, che anche i loro rapporti affettivi oggi sono sotto il segno inquietante della precarietà. Paradossalmente, la loro fretta disperata è direttamente proporzionale alla loro mancanza di futuro. Per questo tanti di essi bevono troppo, si drogano e, non ultimo, sfidano il rischio anche sulle strade, trascinati da stati d’animo incontrollati. Come in una famosa canzone di tanti anni fa, intitolata «Emozioni», dove il protagonista guida a fari spenti nella notte. Così, però, si muore.
Forse il problema, allora, non si riduce a quello – comunque fondamentale - del rispetto delle regole. C’è in gioco una posta più alta, di cui dobbiamo tutti sentirci responsabili di fronte ai nostri ragazzi. Se vogliamo che la morte non sia più il male oscuro che incombe sulle loro giovani esistenze, dobbiamo aiutarli a riscoprire il senso del tempo e l’importanza di un nuovo rapporto con esso. Lavorando sodo per restituire ai nostri figli delle prospettive, a cui hanno diritto. Ma anche insegnando loro a dare alla loro vita un senso che vinca la vertigine insensata della morte.

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