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Quanto ci costa un governo che cade

La Regione Siciliana è formalmente in crisi politica; l’azionista di maggioranza relativa, il Pd, ha ritirato il proprio sostegno e ora il governo regionale, dissoltasi la maggioranza numerica (ma non certo di intenti) che lo sosteneva, muove alla ricerca di una nuova aggregazione politica, tutta da inventare Se dovessero far fede i programmi e le idee portanti emersi in campagna elettorale, dovremmo considerare quanto meno improbabile la nascita di nuove maggioranze, ma i nostri politici sanno compiere miracoli. Soffiano forti i venti della crisi politica sulla Sicilia e sull'Italia.


Il Paese ed una porzione importante di esso sembrano però due malati terminali alla ricerca di improbabili terapie: l'uno (l'Italia) impantanato com'è in una surreale vicenda politico-giudiziaria, l'altra (la Sicilia) più che mai determinata a fare uso di cure anticonvenzionali a base di nuove poltrone-staminali. Malgrado viviamo, immersi fino al collo, in una società globalizzata, per molti esponenti politici e per alcune sigle sindacali le colonne d'Ercole coincidono con i confini di Stato. Eppure il resto del mondo va ad un'altra velocità. Alcuni commentatori hanno rimarcato, ad esempio, che la premier tedesca Merkel ha conquistato 311 seggi in Parlamento e che per la maggioranza assoluta ce ne vorrebbero appena altri cinque. Eppure, la Cancelliera non ha esitato a ricercare un duro ed aspro confronto con la Spd per creare un governo sostenuto da una grosse koalition; il pedaggio da pagare per il partito della signora Merkel sarà costoso, ma nessuna crisi esistenziale sembra affliggere i politici tedeschi che non soffrono certo i laceranti conflitti «ideologici» di chi in Italia, per interesse diretto e per aspettative personali, gioca tutti i giorni a minare la sopravvivenza del governo di Roma. Chissà, nei panni dei parlamentari tedeschi quanti italiani si sarebbero «sacrificati» sull'altare dell'interesse nazionale, con qualche repentino cambio di casacca. Qualche giorno fa nella nobile battaglia per salvare lo stipendio, un deputato regionale è arrivato persino ad invocare la sacralità dello Statuto siciliano. E poco importa che il Parlamento nazionale abbia sancito una sensibile decurtazione dei cosiddetti costi della politica. In Sicilia il superamento delle province - con l'avvento delle città metropolitane e dei liberi consorzi di Comuni - è stato solo sancito; il come ed il perché di questa svolta sono ancora tutti da scrivere. E non è difficile immaginare quale parapiglia si scatenerà attorno agli interessi di 400 Comuni e di alcune migliaia di persone tra dipendenti pubblici e dipendenti delle società partecipate. Circolano molte idee su come spartirsi le spoglie delle Province, ma stranamente non si sente una sola voce sulla ripartizione dei debiti accumulati dalle stesse Province. Ed il rischio che il «nuovo» possa alla fine costare più del «vecchio» è tangibile. In questo quadro, a volte desolante, i problemi della Sicilia permangono gravi e per certi versi irrisolvibili dalla Sicilia stessa. L'Istituto centrale di statistica ha reso pubblico, di recente, un nuovo modo di calcolare il tasso di disoccupazione; fino ad ieri sapevamo di essere tra gli ultimi in Italia con un drammatico 18,6% di disoccupati. Oggi scopriamo che il tasso, riveduto e corretto, ci assegna un impressionante valore del 32,8%! Eppure tutta la politica siciliana sembra convergere sotto le stesse insegne, al grido comune «abbasso la macelleria sociale». Nobile battaglia in vero; ma che dire, a fronte di circa 100 mila stipendiati dalla Regione, dei circa 600 mila disoccupati? Con l'alibi della macelleria sociale, si stanno minando le basi della nostra società, accentuando una frattura definitiva tra chi è dentro e ci resterà e chi è fuori e non entrerà mai.


Negli ultimi cinque anni la spesa corrente della Regione è stata tagliata da 20 a 15 miliardi di euro a causa dei ridotti trasferimenti statali; è facilmente intuibile quale formidabile impatto possa avere generato su un sistema come la Sicilia, un taglio dell'ordine del 25% delle spese correnti. Non è quindi un caso che la Sicilia abbia perso 13 punti di Pil in cinque anni; un dato da economia postbellica! Aggiungendo poi al debito della Regione, quello dei Comuni, delle ex Province, degli Iacp, degli ex Consorzi ASI, Consorzi di Bonifica etc, si superano i 18 miliardi di euro di «esposizioni consolidate». Insomma una montagna di debiti ed un flusso in caduta di spesa pubblica. Che fare allora, quando la stessa Relazione sulla situazione economica della Regione Siciliana, definisce letteralmente «impercorribile» un incremento del gettito tributario ed «impossibile» il ricorso all'ulteriore indebitamento? La soluzione può essere una sola: accelerare al massimo la spesa dei fondi europei, sperare che l'Europa ci consenta di escludere la spesa per investimenti dai limiti rigidi del patto di stabilità e proseguire nella lotta senza quartiere avviata da questo Governo alla inaccettabile vischiosità di programmazione e di spesa dei fondi europei. Per invertire realmente l'andazzo servirebbero, però, un Governo ed un Parlamento determinati e coesi.


Di norma la Regione orienta la spesa in tre grandi filoni: trasferimenti alle famiglie ed alle imprese; acquisto di beni e servizi; investimenti. Solo questi ultimi, lo dichiara ufficialmente la stessa Regione, fanno crescere il Pil. Solo la spesa efficace ed efficiente dei fondi europei può restituirci una speranza di crescita. Con questi inestricabili nodi la Sicilia si presenta all'appuntamento con la legge di stabilità (la ex legge finanziaria) martedì primo ottobre. I problemi, come abbiamo prima esemplificato, sono tanti e da fare tremare i polsi. Un giro di assessori può essere la risposta giusta? Forse domani. Oggi no. Oggi serve rimboccarsi le maniche ed affrontare il terribile trimestre che ci separa dalla fine dell'anno con coerenza, coesione e spirito costruttivo. Forse sono soltanto parole, ma non ce ne sono altre. Chi ha (legittime) aspirazioni di governo, dimostri con una azione determinata in Aula il proprio attaccamento alla cosa comune. Poi, soltanto poi, saranno i siciliani stessi a portarlo sugli scudi fino all'agognato scranno assessoriale. [email protected]

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