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Siria, paradossi di una guerra annunciata

Lo chiamano, da secoli, il «polverone della guerra». Scende e si addensa, nella tradizione, dal fumo delle battaglie. Nel ventunesimo secolo non è più così: la polvere arriva invece prima delle fiamme, delle bombe, dei missili. Regna come confusione nelle menti degli statisti e dei popoli. Ne viviamo in questi giorni l'ennesima puntata, protagonisti un Paese già lacerato, un dittatore di piccolo calibro, il leader della maggiore Superpotenza che la Storia del mondo abbia conosciuto. Tutto dipende dal rapporto fra le intenzioni, le decisioni, i sentimenti, i calcoli e i fatti di Barack Obama, che dopo avere aspettato più di due anni una cosa sembra aver deciso: di intervenire in qualche modo nella guerra civile siriana, con una motivazione precisa e limitata (l'uso, attribuito al regime di Assad, di armi chimiche) e un groviglio di intenzioni e di strategie. Obama dice e ripete che lo farà. Oscilla sul quando, sul come, sulla misura, sugli obiettivi, sulle speranze. Dice e ripete ogni qualche ora di avere fretta, ribadisce l'urgenza dell'intervento ma nello stesso tempo ne sottolinea gli obiettivi limitati, l'intenzione di non volere, intervenendo, decidere le sorti del conflitto ma solo «dare una lezione» al dittatore, senza distruggerlo, nella vaga speranza che egli si batta il petto, si converta e acceda a un «pacifico» passaggio dei poteri.
È difficile, naturalmente, che Assad accontenti in questo Obama. Non è mai stato un uomo ragionevole e accomodante e sempre un dittatore duro e spesso feroce; in più ha fresca nella memoria la fine dei suoi «colleghi» incorsi nell'ira dell'America, da Saddam Hussein impiccato a Gheddafi «linciato» nell'ultimo gradino della sua fuga. Tutto è pronto, dice la Casa Bianca e ripete, con ancora maggior decisione, il Dipartimento di Stato. Nella guerra così preannunciata si stagliano le figure dei protagonisti, due ”pacifisti”. Obama non solo e non tanto per essere stato insignito del Premio Nobel per la Pace appena arrivato alla Casa Bianca ma per la sua ”linea” durante il conflitto in Irak, il suo svolgimento e soprattutto nelle ore della decisione: George W. Bush ebbe dietro il Paese in quelle ore, con pochissime eccezioni e riserve, una delle quali era il giovane senatore Barack Obama. Il Segretario di Stato John Kerry è l'uomo che, dopo avere servito con onore e distinzione in Vietnam, scaricò per terra davanti al Campidoglio le sue medaglie, trasformandosi in guida e ispiratore della contestazione e di coloro che volevano porre fine a quell'impegno militare.
Polverone, anzi polveroni di guerre non del tutto passate: i soldati americani se ne sono appena andati dall'Irak, gli ultimi stanno per lasciare l'Afghanistan, si chiude il libro delle «guerre di Bush», discusse e discutibili ma spiegabili con l'ondata di emozioni scatenate dalla strage a Manhattan dei terroristi di Al Qaida. Bush ebbe, in quei momenti, molte critiche all'estero ma il compatto sostegno del Congresso e del popolo americano. Oggi l'intervento preannunciato da Obama in Siria incontra l'approvazione di venti cittadini Usa su cento e la rarefazione degli alleati di allora. Prima fra tutti la Gran Bretagna, il più antico e fedele alleato di guerra. Il conservatore Cameron si era messo sulla scia del laburista Blair, ma a lui è capitato di essere sconfessato dal Parlamento di Londra in una forma che non si ripeteva da due secoli. L'Onu allora aveva esitato, oggi dice no. L'Italia si era imbarcata nella «coalizione dei volonterosi» e stavolta sbarca nelle parole, anche dure, di Emma Bonino.
C'è chi si muove nella direzione opposta, sotto la tormenta di quel polverone: la Francia che aveva guidato la ”sedizione” del 2003 con un discorso del suo ministro degli Esteri che si concludeva con una sentenza: «Dico di no a nome della vecchia Europa, che ha imparato che le guerre sono sempre inutili». Oggi il socialista Hollande intona invece la Marsigliese dell'evento, coerente meno con le sue idee che con un pezzo della storia di Francia: quando la Marsigliese fu sostituita come inno nazionale dai versi e dai ritmi di «En partant pour la Syrie» e che poco fa aveva spinto per primo all'intervento in Libia. Poche coerenze, molte ”conversioni”, spiegabili in ciascun caso, a cominciare dal protagonista. Sarebbe difficile, per Barack Obama, tornare indietro. Egli potrà al massimo rallentare. Aspettare il voto delle Nazioni Unite (come chiede a gran voce il Congresso e desiderano ottanta americani su cento) o almeno il rapporto degli ispettori dell'Onu, che non si sa quando rientreranno e lo compileranno. Un'attesa che non potrà essere troppo lunga, se dobbiamo creare al capo della diplomazia Usa, che ha già pronunciato il verdetto: «Gli ispettori non potranno raccontarci nulla che gli Stati Uniti già non sappiano». Il resto è nella nebbia, quella nebbia in cui si aggirano strane ”alleanze”: per esempio quella fra l'America e i seguaci dichiarati di Bin Laden.

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