Questo sito contribuisce all’audience di Quotidiano Nazionale

Dall’isola una sfida per l’Europa

Se loro sono morti, è perché noi non siamo stati vivi. Non siamo stati vivi abbastanza per indignarci di quei ventimila morti sotto il mare. La «globalizzazione dell’indifferenza» ha spento le coscienze del Vecchio Continente con la pancia piena, della culla della nostra società occidentale che è diventata «una bolla di sapone», bella ma vuota.
Con queste frasi dure come una scudisciata, il Papa capovolge la carta geografica e in un attimo Lampedusa diventa Capo Nord, è la porta dell'Europa, l'ultima spiaggia non solo per i profughi ma per l'idea stessa della nostra civiltà. Una sfida per tutti. Ma soprattutto per i responsabili, coloro che «nell'anonimato prendono le decisioni socio-economiche» che hanno portato a questo disastro, «la spina nel cuore» che ha spinto Francesco in un lembo di terra il cui nome significa «scoglio» ma anche «faro».
Bergoglio, eletto meno di quattro mesi fa, da gran timoniere sta tracciando una rotta appassionante. Ed è nell'aria il bene che sta facendo alla Chiesa, si può intuire facilmente il numero delle persone che si stanno riavvicinando dopo un periodo di marosi. Il primo viaggio lontano da Roma dissipa gli ultimi dubbi agli scettici e conferma che il suo sarà un grande Pontificato. All'insegna della speranza e della povertà. La riprova è vicina: la partecipazione alla Giornata mondiale della Gioventù, a Rio de Janeiro dal 22 al 29 luglio. Già il torneo di calcio della Confederations Cup ha mostrato come manifestazioni di protesta e rivendicazioni sociali - dopo le cosiddette primavere arabe - possano scuotere dalle fondamenta anche il Brasile.
Di fronte a questi scenari, col Sud del mondo in rivolta e il Nord in ginocchio per la crisi, di certo qualcuno vorrà arruolare anche Bergoglio tra i rivoluzionari. E di recente persino sul New York Times si è letto di una «certa affinità» tra quanto detto da Francesco sulla «chiesa povera e per i poveri» e la teologia della liberazione, che proprio in Sudamerica è nata.
Niente di più sbagliato. Il filone pauperista (cioè che rivendica per la Chiesa scelte di assoluta povertà) è stato sempre presente nel cristianesimo, sin dai primi secoli, ma spesso è tracimato nell'eresia. Basta ricordare, come simbolo, le descrizioni medievali di Umberto Eco ne «Il nome della rosa», con i francescani che si oppongono ai delegati della curia papale sull'uso delle ricchezze.
Nel Novecento fu forte il dibattito sulla povertà della Chiesa alla vigilia del Concilio Vaticano II. Giovanni XXIII, l'11 settembre del 1962, in un radiomessaggio disse: «In faccia ai Paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta qual è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri». Di quell'epoca un cenno almeno meritano padre Paul Gauthier, che aveva scelto di vivere in una grotta a Nazareth, e il vescovo George Mercier che, vestito da mendicante, arrivò a piedi a Roma dal Sahara.
Il Concilio non produsse una specifica presa di posizione sulla povertà, ma l'eco del dibattito è in numerosi documenti, a cominciare dall'incipit della Gaudium et Spes: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore».
Mentre, a livello ufficiale, da questi fermenti si formava la dottrina sociale della Chiesa attraverso varie encicliche, in Sudamerica si imboccava una strada diversa. Dove, ricordiamolo, erano numerose le dittature militari sostenute dagli Usa e dove le imprese straniere sfruttavano le popolazioni. Milioni di persone erano alla fame nelle favelas. I vescovi dell'America Latina, riuniti a Medellin (1968), scrissero di voler dare «preferenza effettiva ai settori più poveri e bisognosi». A Puebla (1979) crearono poi l'espressione di «scelta preferenziale per i poveri» che sarà fatta propria da tutta la Chiesa.
A un certo numero di teologi e pastori sudamericani non apparve più possibile pensare la fede cattolica senza articolarla in una prassi sociale e politica che favorisse il riscatto concreto dei poveri. Nacque così la teologia della liberazione. Finita nel mirino della Congregazione per la dottrina della Fede, presieduta dall'allora cardinale Joseph Ratzinger, che le dedicò due documenti di forte critica in quanto venata di marxismo e accusata di ridurre la fede cristiana a una prospettiva di liberazione sociale e politica (1984 e 1986). Uno dei teologi della liberazione più noti, Leonardo Boff, fu convocato e «processato» in Vaticano. Nel '92 abbandonò poi i francescani.
Semplificando in poche righe, è questo il clima che Bergoglio ha visto nascere e crescere intorno a sé in Sudamerica. Ed è quindi ben consapevole dei rischi. Anzi, sono numerose negli anni le sue prese di posizione contrarie alla teologia della liberazione. E ciò non ha certo giovato ai suoi rapporti col potere politico argentino e brasiliano (una riprova è attesa appunto a Rio, visto che Boff è stato tra i sostenitori dell'ex presidente Lula). In uno scritto del 2005 Bergoglio afferma: «Dopo il crollo del socialismo reale queste correnti di pensiero sono sprofondate nello sconcerto. Incapaci sia di una riformulazione radicale che di una nuova creatività, sono sopravvissute per inerzia».
Papa Francesco, con la sua omelia di Lampedusa, lancia quindi una terza via. Da un lato, diffidate di chi vorrà dargli la patente di rivoluzionario. Dall'altro - lo ha dimostrato più volte - di certo Bergoglio non è incline a concedere nulla al conservatorismo degli apparati della ricca Curia. Vuole anzi ancorare la finanza vaticana alle sue regole.
Qual è questa terza via? In Argentina il Pontefice è noto per le sue simpatie per un'altra corrente teologica, la teologia del «pueblo», del popolo. L'ex arcivescovo di Buenos Aires elogia la «saggezza cattolica del suo popolo», la spontanea accoglienza e tenerezza per gli ultimi. Le radici di una fede semplice, viva e antica, fondata tutta sul Vangelo e non sui furori ideologici o partitici. La sua omelia di ieri richiama infatti i passi biblici su Adamo e Caino («Dov'è tuo fratello?»), la spinta alla solidarietà che è dedotta dalle parole di Gesù: «Beati i poveri», «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me».
In conclusione, può essere interessante anche un parallelo con la causa per il riconoscimento del martirio di don Pino Puglisi, giunta a conclusione a Palermo il 25 maggio scorso. Spinti dalla falsa etichetta di «prete antimafia» che gli era stata affibbiata, proprio alcuni prelati sudamericani si erano fatti l'idea che anche il parroco di Brancaccio ucciso dai boss fosse «un prete-politico». E che la sua azione fosse motivata da spinte sociali o ideologiche, come nel caso dei seguaci della teologia della liberazione. Ciò avrebbe impedito la beatificazione.
La Postulazione ha invece dimostrato che la radice dell'ispirazione di don Puglisi era nel Vangelo e che l'omicidio fu commesso in odium fidei, per odio contro la sua fede. E non per bloccare una sua battaglia o sfida politica. Tantissime testimonianze di amici, inoltre, hanno anche dimostrato quanto il Beato - esattamente come ora chiede il Papa - avesse scelto a Brancaccio una vita e una Chiesa «povera e per i poveri».
twitter: @fdeliziosi

Caricamento commenti

Commenta la notizia