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Riforme per cambiare, non la rivoluzione

Nell’editoriale di domenica dal titolo «Un governo per noi?» firmato da Antonio Ardizzone e da chi scrive, diciamo che il governo di Enrico Letta è l’ultima occasione di consenso per i partiti tradizionali. Potrà essere colta se questi sapranno preferire l’interesse generale sull’interesse proprio. I lettori di www.gds.it condividono in molti questa tesi. Ma danno pure il segno di un sentimento estremo che si diffonde. Dice Geppetto: «Governare per noi? Questa volta è esigenza loro. Hanno governato soltanto per loro. Una prossima volta potrebbe non esserci più. Non credevo ad una rivoluzione popolare, ma ora è probabile». Non meno estremista Isidoro che chiede «politiche esplicite per i cittadini, in particolar modo per i ceti meno abbienti. I politici devono fare attenzione, perché l’assalto alla Bastiglia può essere sempre fatta». Addirittura...? Che una emergente disperazione sociale possa portare ad una brutta esplosione, lo sappiamo anche noi. Per questo riflettiamo spesso sui percorsi migliori per scongiurarla. Ci vogliono riforme forti, per esempio, nel campo del lavoro (oggi troppo rigido o poco flessibile). O in quello della spesa pubblica, per contenere la brutta spirale conosciuta: troppi sprechi, troppe ruberie, pochi o nessun controllo, troppo debito, troppe tasse - già al 44% del reddito - per pagare le quali il contribuente deve dare allo Stato sei mesi di stipendio. Quanto alle rivoluzioni, però, lasciamo stare. Per due buone ragioni. La prima ce la dà Ambrose Bierce nel suo Dizionario del diavolo: «Rivoluzione. In campo politico viene chiamato così il brusco passaggio da una forma ad un’altra di malgoverno».
La seconda è legata alla prima. Quasi sempre le rivoluzioni finiscono col produrre regimi dove malgoverno e ruberie dei nuovi arrivati possono essere meglio nascoste a quei cittadini che prima, invece, riuscivano a vederle. E a colpirle.

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