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Napolitano, un primo settennato in cui si è guadagnato la stima degli avversari

ROMA. Scrupoloso nel lavoro e garbato nei modi; un uomo tutto d'un pezzo del Novecento, merce rara per questo sguaiato inizio millennio. Giorgio 'l'inglesé - un comunista d'esportazione, volto ideale per sdoganare all'estero il vecchio Pci – sta per ritrovare il Quirinale dopo sette anni durissimi, tra il plauso ovvio degli amici e la stima costruita nel tempo degli avversari. E dire che fino a qualche giorno fa sembrava un addio: "tutto quello che avevo da dare l'ho dato", ha detto con semplicità nei giorni scorsi. "Sette anni al Colle bastano e avanzano e un bis non è stato pensato dai padri costituenti", ha risposto Giorgio Napolitano a quanti ancora reclamavano la sua permanenza salvifica al Quirinale, quasi a voler cristallizzare il tempo ed esorcizzare i troppi problemi da affrontare. Primo dirigente comunista ad ottenere il visto per gli Stati Uniti, ammiratore della cultura anglosassone, ottima padronanza dell'inglese, Napolitano forte e rispettato come mai nel passato, autorevole nella sua proiezione internazionale. Un anziano presidente aperto al nuovo, attento ai diritti civili, progressista e convinto dell'universalità dell'etica e della morale. Un laico, seppure interessato ai problemi dell'anima come spiegò cercando di definire il profondo rapporto che costruì con papa Ratzinger. Si è battuto per la dignità dei detenuti nelle carceri e si è speso per valorizzare il ruolo delle donne. Ha rischiato personalmente nel delicatissimo caso Englaro, resistendo alle spallate del centrodestra e agli anatemi degli ambienti cattolici più conservatori. Pragmatico, ha di recente lodato il "coraggio" di Berlinguer nell'aprirsi al compromesso storico del 1976, proponendolo come modello di larga intesa al Pd di oggi. Ma dall'alto del Colle non seppe vedere il disgusto degli italiani per l'immobilismo dei partiti: il ciclone Grillo lo ha colto di sorpresa e fece l'errore di archiviare l'onda di protesta con una certa altezzosità. 'Re Giorgio', come lo definì il New York Times accostandolo - per la sua strenua difesa della Costituzione - a Giorgio VI, il sovrano divenuto simbolo della resistenza britannica ai nazisti. Il presidente di Napoli a giorni lascia per tornare alla sua vita, sempre in compagnia della moglie Clio. Lui così poco 'napoletano' nel senso popolare del termine: un presidente riservato che al Colle - al di là del suo stretto entourage - quasi non conoscono. Né ciarliero né estroverso, 'Giorgio il migliorista' quasi volava nei corridoi del Quirinale dove - in verità - di rado appariva. E quando appariva molti lo temevano, per la sua scrupolosità che a tratti sconfinava in una pignoleria incapace di delegare. Primo presidente comunista, ha iniziato il settennato grazie all'astensione del Pdl tra le perplessità dei suoi 'compagni'. Una partenza difficile. Ma Napolitano ha impresso un ritmo da fondista, bipartisan, senza sbavature. Tanto da guadagnarsi l'attenzione dell'opposizione. Seppe, lentamente, conquistare anche i cittadini interpretandone i sentimenti più genuini, come quando lo si vide a Berlino gioire - sempre con quel suo understatement tutto british - per la vittoria degli azzurri. Certo, re Giorgio non è stato quella forza della natura che fu Sandro Pertini. Il presidente che fece impazzire il Paese con uno scopone giocato con Bearzot, Causio e Zoff sull'aereo che riportava a casa gli indimenticabili campioni del mondo del 1982. Il suo carattere riservato non gli ha impedito però di ingaggiare durissime battaglie, come nel 2011 con Berlusconi messo alle corde dalla speculazione e gli scandali sessuali. Un braccio di ferro che costrinse il cavaliere a fare un passo indietro lasciando palazzo Chigi a Mario Monti. I critici parleranno di Repubblica presidenziale e di interpretazione estensiva delle sue prerogative. I sostenitori la giudicheranno una mossa determinante per evitare il collasso del Paese. Nonostante questo, è stato spesso criticato proprio a sinistra, dove in tanti non hanno gradito il suo 'via libera' a provvedimenti Pdl quali, ad esempio, il lodo Alfano. Filo conduttore della sua azione è stato il dialogo fra le forze politiche. I primi due anni li ha passati curando il traballante governo Prodi. Fino alla sua caduta e al ritorno del Cavaliere a palazzo Chigi. I successivi tre anni si consumano nel tentativo di arginare l'attivismo di Berlusconi. In realtà non fece grossi 'sconti' al centrodestra, ma preferì l'arma della 'moral suasion' a quella del rinvio dei provvedimenti alle Camere. Paradossalmente è proprio con la nascita del Governo tecnico (considerato il suo capolavoro politico) che si apre la fase più difficile: evitato il burrone della crisi, l'Italia non riesce a schivare quello della recessione. L'immagine del governo 'tecnico' a poco a poco si sbriciola. Il Pdl lo molla e Monti si dimette, contro il parere del presidente. Non solo, decide di 'salire in politica'. Napolitano, inutilmente, lo sconsiglia. I loro rapporti personali escono incrinati. Poi, i risultati elettorali, lo stallo politico e le critiche per l'iniziative dei saggi, regalano a Napolitano una conclusione "amara". Ma tutto ciò è stato nulla in confronto allo sgomento provato quando fu coinvolto nei veleni della trattativa tra Stato e mafia. "Una campagna violenta e irresponsabile", disse quando Loris D'Ambrosio, uno dei suoi più stretti consiglieri morì per un infarto. Era stato intercettato mentre parlava con l'ex presidente del Senato, Nicola Mancino, imputato dalla procura di Palermo. Intercettazioni arrivate fino allo stesso Napolitano che a quel punto decise di aprire un inedito conflitto di attribuzione - poi vinto - contro i giudici di Palermo".

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