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Lavoro, dati neri «servono altre vie di ingresso e meno rigidità»

L’economista della Bocconi: «La legge varata dalla Fornero ha peggiorato la situazione, flop dei contratti per i giovani»

Ferma nella politica, rapida nella recessione. Ce lo ricorda anche Bruxelles: nel tempo sospeso delle istituzioni l'Italia cammina fuori dal recinto della ripresa. E al di là dei moniti dell'Ue, dove il Paese resta osservato speciale per i suoi debiti, è l'economia reale a parlare chiaro, con i numeri della crisi che continuano a scorrere. Gli ultimissimi, registrati da Confindustria e Istat, raccontano la “Spoon River” delle aziende e dell'occupazione: circa 70mila imprese chiuse in cinque anni e un esercito di 5,7 milioni di inattivi. «Poi ci sono le cifre, drammatiche, del ministero del Lavoro», rammenta Tito Boeri, economista della Bocconi e fondatore del sito “lavoce.info”: nel 2012 «un milione di licenziati, 200mila assunzioni in meno con un flop dei contratti per i giovani».

PROFESSORE, QUALE DI QUESTI DATI LA PREOCCUPA DI PIÙ?
«Certamente il numero di licenziamenti è scioccante. Ma impressiona, in particolare, quello relativo alle assunzioni. Da lì ci si rende subito conto che la situazione occupazionale, peraltro già drammatica, è peggiorata a causa della legge Fornero. L'irrigidimento su alcuni tipi di contratto, previsto dalla riforma, ha ridotto sensibilmente le figure del parasubordinato, i lavori a tempo e a progetto, le associazioni in partecipazione. Purtroppo, alla forte riduzione di queste tipologie non ha corrisposto una stabilizzazione, cioè l'aumento di contratti permanenti. Ciò vuol dire che la riforma Fornero non ha proposto un canale di ingresso alternativo al mercato del lavoro. Un errore gravissimo. Il discorso cambia sui licenziamenti, dove la legge del ministro non ha avuto un grande impatto: la riforma ha agito solo sui licenziamenti individuali, che sono in netta minoranza rispetto a quelli collettivi».

UNO DEGLI OBIETTIVI DEL GOVERNO ERA ARGINARE LA “CATTIVA FLESSIBILITÀ”. GIUSTO O NO FERMARE CERTE FORME CONTRATTUALI?
«È chiaro che ad alcune tipologie di contratto subordinato, dietro le quali in non pochi casi si nascondevano abuso e sfruttamento da parte del datore di lavoro, bisognava porre subito un freno. Ma occorreva al contempo creare una via o un modello di ingresso alternativo, ovvero non distruggere il lavoro ma trasformarlo e migliorarlo qualitativamente, rendendolo progressivamente più stabile. Tutto ciò non è stato fatto».

PER CREARE STABILIZZAZIONE IL GOVERNO HA PUNTATO SUL PERCORSO DELL'APPRENDISTATO. QUESTA FORMULA HA AVUTO SUCCESSO?
«Assolutamente no, e anche qui i dati sono impietosi. Prima della riforma i contratti di apprendistato non sono mai decollati, dopo, nonostante gli incentivi fiscali, si sono addirittura ridotti. Questo dipende da una serie di fattori. Innanzitutto, si tratta di un tipo di contratto che non può essere proposto a persone che hanno già avuto un'esperienza lavorativa, e in Italia molti degli inattivi vantano alle spalle anche lunghi periodi di occupazione. Pensiamo al cinquantenne che ha perso il lavoro: come fa ad accettare un apprendistato? Inoltre, stiamo parlando di una modalità di contratto che deve essere recepita dalle normative regionali, e molte Regioni non si sono ancora adeguate. Ci vorrà ancora moltissimo tempo perché ciò accada, e in una situazione d'emergenza come quella italiana tutto ciò rende ancora più inefficace la formula dell'apprendistato».

QUALE PUÒ ESSERE L'ALTERNATIVA PER INCENTIVARE I CONTRATTI PERMANENTI, ABBATTERE IL PRECARIATO, SENZA DISINTEGRARE L'OCCUPAZIONE?
«Si dovrebbe agire su diversi fronti. Oggi il datore di lavoro è scoraggiato ad assumere con contratto permanente anche perché poi, se è costretto a licenziare, deve pagare costi altissimi. Bisognerebbe allora istituire un contratto a tempo indeterminato a tutele progressive, che nei primi tre anni permetta una maggiore flessibilità: il datore ha così la possibilità di valutare competenze e qualità del dipendente, con costi diversi e crescenti in caso di licenziamento. Poi bisognerebbe introdurre il salario minimo, a tutela di tutti quei lavoratori più vulnerabili, che spesso, in tempo di crisi, si trovano di fronte a un potere contrattuale eccessivo del datore. Sarebbe un potente incentivo ad aumentare l'occupazione. Inoltre, a tutti i dipendenti che prendono il salario minimo, supponiamo fissato a 4 euro l'ora, lo Stato potrebbe dare un euro l'ora in più, come è stato fatto in Germania per contenere le perdite occupazionali. Il contributo, tra l'altro, avrebbe un peso limitato sui conti pubblici, stimato in tre miliardi di euro».

A GIUGNO LA CASSA INTEGRAZIONE RISCHIA IL COLLASSO. DOVE SI POSSONO TROVARE, A BREVE, LE RISORSE PER EVITARE LICENZIAMENTI DI MASSA?
«Ogni anno spendiamo oltre 7 miliardi in politiche attive del lavoro, in corsi di formazione per lo più di dubbia efficacia, che creano occupazione per chi li organizza piuttosto che per chi partecipa, in un contesto, oltretutto, dove manca l'offerta di lavoro. Queste risorse potrebbero essere destinate a chi perde il posto o è in cassa integrazione».

È OVVIO CHE LA CRISI OCCUPAZIONALE NON DIPENDE SOLO DALLA RIFORMA FORNERO. COME NE USCIAMO FUORI?
«Il problema più stringente è rappresentato dalla stretta creditizia nei confronti delle imprese, soprattutto le piccole, con la conseguente perdita di posti di lavoro. Alle aziende manca liquidità. Con il decreto che sblocca i debiti dell'amministrazione pubblica il governo ne ha messo in circolazione un po'. Purtroppo le procedure sono alquanto macchinose e prevedono tempi troppo lunghi. Bisognerebbe accelerare il processo. Poi bisognerebbe alleggerire la pressione fiscale sul lavoro. Un'operazione difficile, che diventa impossibile se i politici, come hanno fatto in campagna elettorale, promettono la riduzione o l'abolizione dell'Imu sulla prima casa. I margini di manovra sono già strettissimi, se va via la tassa sull'immobile spariscono».

DISOCCUPAZIONE ALLE STELLE E AZIENDE AL COLLASSO. QUANTO POSSIAMO STARE ANCORA SENZA GOVERNO?
«Per agganciare quella brezza di ripresa che c'è in Europa bisogna fare in fretta. Al di là dei conti pubblici, l'instabilità politica, ogni giorno che passa, crea danni inestimabili all'economia: le imprese rimandano i piani di investimento e le famiglie i loro piani di spesa. L'Italia non è come il Belgio, che è rimasto a lungo senza governo: ha bisogno di un esecutivo, e alla svelta».  

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