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Bersani o inventa qualcosa o fallisce

«Determinazione», «Ponderazione», «Equilibrio». Intorno a queste tre parole - e al significato che vorrà dargli in concreto - gira il tentativo di Pier Luigi Bersani di formare il primo governo di un dirigente postcomunista che esca vincitore (seppure molto ammaccato) da un’elezione politica.
Sulle prime due parole non c'è molto da interpretare: Bersani è determinatissimo a fare un governo fin dal giorno successivo a queste traumatiche elezioni. Sa di dover giocare con i bastoncini cinesi e quindi ogni sua mossa sarà ponderatissima. La parola decisiva è tuttavia la terza: equilibrio. L'equilibrio in politica ha portato ad equilibrismi che gli stranieri non hanno mai capito: «convergenze parallele», «non sfiducia», «equilibri più avanzati». La Seconda Repubblica, con il suo bipolarismo, bene o male ci aveva salvato da certe assurdità della Prima. Va a pensare che ci saremmo ricascati in pieno e per di più con un Beppe Grillo bene attento ad occupare i depositi di dinamite mediatica (l'ufficio dei questori del Senato, i detentori della cassa della Casta), ma per nulla disposto a fare un centesimo di sconto a nessuno sulle alleanze politiche. Una scelta «equilibrata», di buon senso, vorrebbe che in un momento come questo ci si turasse il naso e si cercasse una convergenza con tutte le forze in campo disponibili: Scelta Civica, Lega e Popolo della Libertà. Ma Bersani intende limitare il rapporto con il Cavaliere alle sole riforme istituzionali e alla legge elettorale: procedura correttissima, se poi ci fosse un governo stabile in grado di fare il resto. Ma questo governo stabile come può nascere? Scelta Civica da sola non si muove: sa che i suoi senatori non sono sufficienti a partorire il governo Bersani e non vuole pasticci sommandosi a qualche grillino eretico. Il suo obiettivo è un'alleanza più larga che arrivi fatalmente al Cavaliere. Come si fa? La Lega (come del resto Monti e Casini) ha paura delle elezioni, ma a quanto pare Bersani si illude se pensa di staccare Maroni da Berlusconi. Ieri sera abbiamo chiesto al presidente della Lombardia se uno strappo del genere è ipotizzabile e lui ci ha risposto di no, annunciando che la delegazione leghista (stavolta prevedibilmente guidata da lui stesso) andrà da Bersani insieme con quella del PdL per ribadire una posizione comune.
Non sembra dunque che ci siano spazi se «l'equilibrio» del presidente incaricato (non di formare un governo, ma di verificarne la possibilità) non lo porterà ad uscire dai confini prefissati. Bersani, tuttavia, non ha nessuna intenzione di limitarsi a registrare l'impossibilità di mettere insieme una maggioranza credibile. Dovrà inventarsi qualcosa. Per esempio la trattativa sul nome del successore di Giorgio Napolitano, ammesso che Napolitano abbia subito un successore. Dopo una battaglia giudiziaria che dura da diciannove anni, Berlusconi non vuole uscire dalla vita politica italiana come Craxi. L'ineleggibilità retroattiva è una sciocchezza, la prospettiva del carcere no. Contro questo morso letale esistono soltanto due antidoti: l'amnistia e la grazia. La prima - collettiva - richiede una maggioranza parlamentare dei due terzi, la seconda - individuale - è una prerogativa del capo dello Stato. Si aggiunga la richiesta del centrodestra di avere comunque al Quirinale una personalità non ostile. La cabala politica ha sempre impedito a Berlusconi di avere la maggioranza al momento dell'elezione del capo dello Stato. Ma se invece di Romano Prodi, che egli giudica ostile, il Pd si acconciasse ad eleggere Giuliano Amato, Franco Marini o perfino Massimo D'Alema, i giochi potrebbero riaprirsi, anche quelli per un governo. In ogni caso oggi Berlusconi desidera dare una prova di forza da Roma, dove riempirà piazza del Popolo. Ne vedremo la consistenza e nei prossimi giorni ne misureremo gli effetti.

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