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L’eredità più preziosa di Ratzinger nelle sue tre encicliche

È questa la visione del Pontificato incarnata da Joseph Ratzinger, una convinzione che parte dagli anni giovanili e dai suoi primi studi teologici, ribadita già al momento dell’elezione e ieri portata a compimento con un gesto di grande umiltà, dignità e coraggio.
Nel volume «Introduzione al Cristianesimo», che gli diede la fama nel 1968, c’è una riflessione illuminante: «La Chiesa non va pensata partendo dalla sua organizzazione, ma è l’organizzazione che va compresa partendo dalla Chiesa...La Chiesa forma un tutto unico grazie all’unica Parola e all’unico Pane». La presenza dei vescovi, e anche del Papa che è il vescovo di Roma, «non esiste per se stessa, ma rientra nella categoria dei mezzi; serve alla realizzazione dell’unità delle chiese locali...Un ulteriore stadio, sempre nell’ordine dei mezzi, è costituito dal servizio del vescovo di Roma».
Parole esplicite: il Pontificato è un servizio, un mezzo per raggiungere e fortificare l’unità della Chiesa. Un compito di grave responsabilità, soprattutto in un periodo in cui i mali appaiono evidenti anche all’interno del clero. Fecero scalpore infatti le meditazioni del cardinale Joseph Ratzinger per la Via Crucis del 2005: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Dio! Quanta superbia, quanta autosufficienza!». Parole che oggi risuonano profetiche alla luce di quanto emerso sui preti pedofili (contro cui Benedetto XVI ha preso durissimi provvedimenti). E alla luce anche dello scandalo del Corvo, con la fuga dei documenti dalle stanze del Papa.
Alcuni cardinali presenti all’ultimo conclave riferirono di una sua frase significativa subito dopo l’elezione: «È la mia ghigliottina...avevo pregato Dio perché scegliesse candidati più giovani». E nella formula di accettazione Ratzinger disse di essere «sereno ma consapevole delle grandi difficoltà». Nella prima omelia diede nuovamente voce al timore che lo aveva assalito: «Come sarò in grado di reggere un compito inaudito che supera ogni capacità umana?».
Il timido e riservato professore di teologia si caricò sulle spalle il fardello pesantissimo dell’eredità di Giovanni Paolo II. In discrezione e sobrietà, con un «minimal style» totalmente diverso da quello del suo predecessore. Se Wojtyla fu il mistico dell’Est che trasportò di peso la Chiesa nel nuovo secolo, contribuendo ad abbattere il comunismo, Ratzinger è stato il Papa dell’identità cattolica, l’uomo che ha mostrato come si può coniugare ragione e fede. Autore di oltre un centinaio di libri e teologo finissimo, ha affascinato con il lampo dell’intelligenza e il concatenarsi del ragionamento. Con la capacità di rendere comprensibili a tutti - anche improvvisando a braccio - le riflessioni più profonde e i passaggi più delicati e densi delle sue meditazioni.
Di fronte a lui problemi sterminati: da un lato l’esigenza di riforma della Chiesa sia come struttura che come gestione finanziaria (vedi il caso Ior), dall’altro le sfide della globalizzazione e i rapporti con le altre religioni, ebraismo e Islam in primo luogo. Non su tutti i fronti sono arrivati successi e non sono mancate le incomprensioni. Ma la forza della sua fede ha attratto ugualmente le folle, anche durante i numerosi e difficili viaggi internazionali. E Ratzinger ha sempre rispettato il semplice programma enunciato il primo giorno: «Il nostro compito di pastori è mostrare Dio agli uomini». Un Dio vicino all’uomo, soprattutto in questo «deserto spirituale che è l’indifferenza», il peggior male di oggi.
L’eredità più preziosa di Benedetto XVI va cercata quindi non in un bilancio politico e strategico, che resta incompiuto, ma nella sua parola. E soprattutto nelle tre encicliche: «Deus Caritas est» (2005), «Spe salvi» (2007), «Caritas in veritate» (2009). Nella prima torna alla domanda fondamentale di ogni religione: che cosa è Dio? E spiega una verità che è la radice stessa del cristianesimo: Dio non si conosce, si ama. Perchè è egli stesso l’Amore. Egli è l’Emmanuel, il Dio con noi. La scoperta del Dio-Amore, proclamata dall’evangelista Giovanni, avviene attraverso quel calore, quell’unione, quel fremito padre-figlio che nessuna parola può descrivere: «Chi sta nell’Amore dimora in Dio e Dio dimora in lui». A coloro che non conoscono l’abbraccio con Dio, il grande brivido che è anche compenetrazione nella forza universale, il Papa ricorda che «solo da Dio viene la vera rivoluzione, il cambiamento decisivo per il mondo».
Nella seconda enciclica, il Pontefice - in un tempo in cui spesso si fa fatica a trovare delle ragioni per sperare - richiama i cristiani al dovere di rispondere con la fede a «chiunque domandi ragione della speranza che è in loro» (Prima lettera di Pietro). Benedetto XVI dipinge un affresco che va oltre la storia. Ottocento e Novecento hanno creato altre speranze per l’uomo: la ragione, la scienza, l’uguaglianza economica. L’illuminismo e il marxismo hanno alimentato la credenza nelle «magnifiche sorti e progressive». Ma poi queste ideologie hanno lasciato «solo cumuli di violenza». Avanza ora il relativismo morale, la ricerca della felicità a ogni costo, il tentativo di relegare la religione e l’idea stessa di Dio, o della vita eterna, in soffitta tra le anticaglie. Non dobbiamo dunque, conclude il Papa, chiederci cosa è la speranza ma «chi» è la speranza: ovvero Gesù Cristo. La scintilla che duemila anni fa ha acceso un gran fuoco sulla terra per riscaldare gli uomini.
La terza enciclica è tutta centrata sui temi della crisi economica in cui il mondo stava precipitando fino alla gola. «Caritas in veritate» aggiorna la dottrina sociale della Chiesa sui temi della globalizzazione. Da questa emergenza planetaria, scrive il Papa, o si esce tutti insieme o non ne uscirà nessuno. E i Grandi non dimentichino i poveri, l’Africa, il Terzo Mondo: coloro che stanno subendo più di altri la crisi e non hanno fatto nulla per causarla. La verità della fede può contribuire a un’etica della solidarietà ancora in grado di dare risposte all’uomo del Terzo Millennio. Dopo il crollo del Muro dell’89, il crollo economico del 2009. Finita l’illusione marxista a Est, finisce l’illusione a Ovest del benessere senza sacrifici. E si impongono nuovi stili di vita.
Ecco infine l’11 febbraio, la rinuncia, le domande di un mondo intero di fronte alle dimissioni. Il giovane teologo di Tubinga del ’68 si ricongiunge col Pontefice affaticato del 2013. Da un grande potere derivano grandi responsabilità. Ma quando le forze vengono meno, anche il Papa può passare la mano, in un’ottica di servizio. Un gesto di cui i successori di Ratzinger dovranno tenere conto. E che forse è il primo passo della grande riforma di cui la Chiesa ha bisogno.

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