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La Rai e le strategie di rilancio

Sono esattamente cinquant’anni da quando - fresco di una precoce maturità classica - la Rai mi affidò per la prima volta un microfono. Da allora - esclusi i prossimi - ho avuto ventuno presidenti e venti direttori generali, ma credo che il compito di Anna Maria Tarantola e Luigi Gubitosi - ormai vicini all’insediamento, dopo l’ultima battaglia per la nomina del consiglio d’amministrazione - sia forse più gravoso di quello dei loro predecessori, se non altro per le maggiori attese che ne ha accompagnato la designazione. La loro indiscussa caratura professionale li metterà certamente al riparo da valutazioni affrettate. Ed è un bene perché vista dall'esterno la Rai troppo spesso viene scambiata per un luogo di malaffare. Ciò non rende merito alle migliaia di dipendenti e di collaboratori che vi lavorano onestamente e con qualità indiscusse. Ed è frutto di un giudizio falso, in buona sostanza, se è vero - per citare un solo esempio - che da diciassette semestri consecutivi Rai 1 vince il periodo di garanzia contro un avversario molto ben strutturato come Canale 5. La prima cosa che chiede chi lavora alla Rai è dunque di essere rispettato: cosa che non sempre avviene da parte di quei giornalisti, per esempio, che certo non accetterebbero domande sui conflitti d’interesse dei loro editori e che invece chiedono a noi insistentemente pareri sui nostri. Per non parlare dello spoils system in fatto di nomine che in Francia e Spagna, per esempio, avviene con brutalità perfino maggiore che in Italia. Lo stesso discorso sui tagli - doveroso in un momento come quello che stiamo attraversando - va fatto in profondità e con cautela. In profondità, perché c’è da chiedersi, per esempio, quanto sia coerente con una corretta strategia aziendale una esagerata moltiplicazione dei pur validi canali digitali o perché la Rai - dai tempi in cui affittava il gong usato da Miche Bongiorno in «Lascia o raddoppia» - insista nel noleggiare apparati anche in trasmissioni che con grande risparmio potrebbero acquistarli e ammortizzarli o ancora perché - contro ogni logica - certe lavorazioni, anche modeste, fatte all’interno costino più che all’esterno. Più discutibile sarebbe invece continuare con i tagli sul prodotto che hanno già ridotto reti e telegiornali sull'anticamera della sala di rianimazione. L’ultimo di una serie di tagli imposti negli ultimi anni (fino a quello finale di sessanta milioni per pareggiare il bilancio) hanno raschiato il fondo del barile ed è molto grave che quelli già annunciati si rendano necessari per la caduta imprevista dei ricavi pubblicitari. È sorprendente che finora nessuno si sia chiesto com’è possibile - pure in un mercato in grave difficoltà - che la caduta di spot in Rai sia proporzionalmente molto maggiore di quella registrata in Mediaset, che pure fa registrare ascolti nettamente inferiori. Gli esperti dicono che la caduta degli investimenti nel secondo semestre si annuncia complessivamente un po’ meno pesante rispetto al primo (dove comunque la prestazione dell'Italia ai campionati europei è stata per gli ascolti una grazia inattesa). C’è dunque modo e tempo per arginare le perdite,a patto che si decida di farlo. È da lì che è ragionevole cominciare, visto che è impossibile fare buoni programmi (quelli peraltro che costano assai meno della loro resa pubblicitaria) se i budget scendono sotto il livello di guardia. Nel 1994 Fininvest si era appena salvata grazie ai tagli micidiali di Franco Tatò. Eppure Silvio Berlusconi, beneficiario dell’operazione, mi disse per il mio libro di quell’anno che bisognava smettere «perché senza un po’ di lustrini lo spettacolo non si fa». Non sappiamo se tra le missioni del nuovo consiglio d’amministrazione ci sarà quella di tentare la parziale privatizzazione della Rai. Il tema è troppo complesso per essere trattato in poche righe. Se tuttavia si decidesse di rendere più rigorosa la programmazione di «servizio pubblico», resterebbe ineludibile incassare il canone nella sua interezza. Chi scrive ha condotto inutilmente con il governo Berlusconi una campagna perché il canone - magari dimezzato per le fasce più deboli e rateizzato per tutti - fosse legato a una qualunque bolletta come accade negli altri paesi, in cui peraltro la disciplina fiscale è ben maggiore della nostra. È invece incomprensibile come un governo tecnico che non ha problemi di consenso e ha fatto della lotta all’evasione una sua priorità non si sia ancora deciso ad affrontare questo tema in modo radicale. C’è da sperare che Tarantola e Gubitosi, scelti con forte determinazione dal presidente del Consiglio, abbiano udienza e fortuna migliori. Con quattro, cinquecento milioni in cassa di più si potrebbe davvero costruire una nuova Rai, migliorandone l’attuale leadership continentale in ascolti e forse anche in qualità. 
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