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A Tavola a ritmo di… lumaca Origini e ricette: tutti i segreti

I “babbaluci” con le loro varianti nel racconto dello storico Gaetano Basile. “In Sicilia tre specie più consumate”. A Palermo, nel giorno del Festino, è abitudine soffriggerli con aglio, olio d’oliva, sale, pepe nero e prezzemolo. Nel Catanese i più diffusi sono i crastuni arrostiti

PALERMO. I babbaluci sono il piatto tipico del Festino a Palermo, ma l’uso delle lumachine in cucina è una tradizione che nelle sue varianti coinvolge anche il resto della Sicilia. A Palermo sono consumate soprattutto nel giorno della Santuzza, assieme allo sfincione degli ambulanti lungo corso Vittorio Emanuele, al “melone agghiacciato” sotto Porta Carini, a “calia e semenza” da sgranocchiare illuminati dai fuochi d'artificio e a pane e panelle, “pani ca' meusa” e stigghiole.
Gaetano Basile, palermitano, storico, giornalista, enogastronomo e scrittore, appassionato di cultura siciliana, svela i segreti di questa tradizione sulla quale ha anche pubblicato un trattato. “Il termine scientifico di questa ghiottoneria cornuta – spiega Basile – sarebbe Helix o Theba pisana, piccola e biancastra, raramente tendente al rosa, comune nelle provincie di Palermo e Trapani. Ma i palermitani oltre al classico babbaluciu, consumano anche i babbaluci cilesti, cioè la Jantina communis, dalla conchiglia fragile e di color ceruleo e altre due specie marine: la Natica millepunctata e la Natica castanea. Quella terrestre è la vittima sacrificale per festeggiare il Festino: i babbaluci vengono soffritti con aglio, olio d’oliva, sale, pepe nero e prezzemolo”. In Sicilia ci sono tre famiglie di lumache terrestri. ”Alla prima - spiega Basile -, quella dei classici babbaluci, appartengono i vavaluci, cazzicaddi nel Ragusano e i vucalaci, parola di probabile origine araba. Alla seconda famiglia appartengono gli attuppateddi, scientificamente noti come Helix Naticoides, che si trovano nella terra argillosa dopo le prime piogge autunnali. Anche questi ultimi assumono nomi bizzarri come izzu, scauzzu, scataddizzu e munacheddi. Infine, la terza famiglia è quella dei crastuna, dal colore bruno-verdastro e il cui nome scientifico è Helix vermiculata: conosciuti anche come settesordi o carrinu, ma anche barbaniu o muntuni”. Ma attenzione, spiega ancora Basile: “Il babbalucio spesso si nutre di erbe che per l’animale sono innocue mentre potrebbero risultare tossiche per l’uomo, anche per questo è buon uso farli purgare per tre giorni, aggiungendo della mollica di pane o del pangrattato, in modo che le lumache si nutrano di questo e si sbarazzino di tutto”.
E le ricette non mancano: “Le più note sono i Babbaluci a picchi pacchiu: cotte, a fuoco basso per far uscire le poverette dal loro guscio, in un tegame il cui bordo si ricopre di sale umido e poi bollite per qualche minuto, scolate, e soffritte in olio d’oliva con la cipolla tritata, pomodori pelati a pezzetti, sale, pepe e prezzemolo”. “Nel Catanese - spiega Basile - si preparano Attuppateddi o Crastuni arrustuti e i Crastuni fritti che, dopo la cottura, con l’aiuto di uno stuzzicadenti, si estraggono dal guscio, si passano nella farina e nell’uovo battuto, quindi nel pangrattato, e si fanno dorare nell’olio d’oliva bollente. E infine nella versione più elegante e nobile, i Crastuni del Monsù saltati in padella con burro, aglio e prezzemolo e gli Attupateddi ccu sucu russu, soffritti con la cipolla in olio d’oliva, concentrato di pomodoro ben concentrato, sale e pepe”.
Ma c'è un’altra tecnica per gurstarle: “Succhiarle direttamente dal guscio dopo che coi canini si è creato quel foro che ne permette la fuoruscita – dice lo studioso -. Sicilianità vuole che a ciascuna sia riservato un bacio post mortem. È previsto l’uso delle dita, della bocca e forza aspirante. Ma solo alle educande romantiche di buona famiglia fu consentito l’uso di un uncino d’argento, per evitare quel poco elegante risucchio”.

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