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Le mosse di D’Alema per salire al Quirinale

Massimo D'Alema è un serio professionista e probabilmente il «meglio fico del bigoncio» (per usare un'antica espressione romanesca) della politica italiana. Rimirando nel suo studio la famosa «foto di Vasto» in cui Bersani compare insieme a Di Pietro e a Vendola deve essersi detto: ma perché non votare a ottobre e portare Bersani a Palazzo Chigi con questa legge elettorale e questa compagnia politica e magari andare io stesso al Quirinale? Perché aspettare la cadenza elettorale ordinaria di marzo quando i partiti saranno stremati dalla protesta dei loro elettorati e la confusione delle scomposizioni e ricomposizioni politiche, oltre che una nuova legge elettorale, potrebbe rimettere tutto in discussione? S'intenda: nessuno ha mai fatto il nome di D'Alema come possibile candidato al Quirinale. Nel 2006, dopo essere stato bruciato da Fausto Bertinotti come presidente della Camera, il presidente del Copasir avanzò la candidatura al Colle che già fu ventilata una decina d'anni prima, al momento dell'esperienza della Bicamerale. Berlusconi l'avrebbe votato (non votò invece Napolitano), ma D'Alema fu bruciato dall'affetto dei suoi cari compagni di partito e di coalizione. Anche immaginando che domani la coalizione vincente voglia cedere il Quirinale a Casini in nome di un rafforzamento della maggioranza, sarebbe sempre l'ala Ds del Partito democratico a dare le carte dopo le elezioni autunnali. Quindi perché aspettare?
A quanto pare, non era una provocazione quella avanzata l'altro giorno da Berlusconi, quando denunciò qualche manovra per andare al voto in ottobre, dichiarandosi contrario. La tentazione del Pd - o almeno di una parte del Pd - è reale e giustificata, ma incontra tre grossi scogli. Il primo sono i mercati: solo un pazzo potrebbe sconvolgere la vita italiana con una sanguinosa campagna elettorale in un periodo in cui si trattiene il respiro per non disturbare le Borse.Il secondo scoglio è la indisponibilità del PdL a esplodere lo «sparo di Sarajevo» che faccia cadere Monti e sia al Pd il pretesto per chiedere lo scioglimento delle Camere. Questo nonostante un'ala minoritaria, ma agguerrita del centrodestra prema per andare a votare, convinta che la sconfitta di oggi sarebbe più lieve del disastro annunciato per domani. Il terzo scoglio è Giorgio Napolitano, fico ancora migliore di D'Alema, un grandissimo protagonista della politica che non diventò mai segretario del Pci per i suoi modi troppo felpati, ma che invecchiando ha trasformato silenziosamente la nostra confusa Repubblica parlamentare in una più nitida Repubblica semipresidenziale. È lui il padre del governo Monti e ha detto con chiarezza ancora l'altro giorno che non intende chiudere il suo mandato presidenziale sciogliendo per la seconda volta le Camere dopo averlo fatto molto a malincuore nel 2008, in seguito alla caduta del governo Prodi. Perciò il chiaro e comprensibile disegno politico attribuito a D'Alema (a torto o più probabilmente a ragione) è destinato probabilmente a restare un disegno.
Si aggiunga che - per iniziativa propria oltre che per il pressante incoraggiamento di papà Giorgio - Monti sta muovendosi con notevole abilità nel corridoio della crisi economica e finanziaria europea trattando con il governo tedesco una ragionevole exit strategy per Angela Merkel che - dopo aver perso la rigida stampella olandese - tra una settimana si troverà verosimilmente senza la stampella (peraltro comunque molto instabile) di Nicolas Sarkozy. Se Monti riuscisse a far passare il vecchio e mai attuato principio di buonsenso secondo cui i soldi per gli investimenti debbono restare fuori del patto di stabilità, anche i partiti italiani avrebbero un maggiore margine di manovra per proporre ai cittadini il piccolo dividendo che oggi manca. E allora le elezioni dell'anno prossimo avverrebbero in un clima tutt'affatto diverso.
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