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Liberalizzazioni, percorso a ostacoli

Con la fiducia sul «super-emendamento», si è chiuso il percorso delle liberalizzazioni al Senato. Un percorso poco entusiasmante, che a detta dei media ha palesato una certa debolezza da parte del governo. Nel rapporto col Parlamento, l'esecutivo è parso sostanzialmente incapace di orientare il flusso delle modifiche legislative, sino allo scivolone sulla norma che ha portato alle plateali dimissioni del presidente dell'Abi Mussari e di tutta la prima fila dell'associazione bancaria italiana.
Un agguato a Monti? Parrebbe di no. È più probabile che i senatori abbiano semplicemente cercato di «battere un colpo», andando ad occuparsi di uno degli ambiti della vita italiana - il mondo del credito - a torto o a ragione considerato meno aperto alla concorrenza. Ma anziché fare leva sulla libertà economica, hanno di fatto proposto prezzi amministrati e controlli pubblici.
A loro (parziale) discolpa, va detto che c’è molta confusione su che cosa siano le «liberalizzazioni».
È opportuno, a tale proposito, fare un po’ di chiarezza. L’economia italiana è stata, per anni, molto condizionata dalla presenza dello Stato. Fu il fascismo a fare della nostra una economia «corporativa». Il corporativismo avrebbe dovuto separare la contrapposizione fra socialismo e capitalismo (era la «terza via» dell’epoca!), ma si risolse nella creazione di «nicchie» protette dalla concorrenza a vantaggio di alcuni interessi particolari. Parallelamente, perlomeno dal ’29 in avanti, aumentava l’intervento diretto dello Stato nell’economia, il cui perno era l’IRI.
Questa architettura rimase sostanzialmente invariata nel passaggio fra fascismo e repubblica: un po’ per ragioni ideologiche (certamente né la DC né, ovviamente, il PCI avevano una visione favorevole della libera concorrenza), e un po’ perché, comprensibilmente, i padri costituenti non potevano squadernare le istituzioni economiche di un Paese già segnato da una transizione tanto difficile.
Dalla fine degli anni Ottanta, però, è stata avviata un’opera di riforma profonda e, in una certa misura, di «smantellamento» dello Stato massimo. Sono state privatizzate le banche, la telefonia, le autostrade, per non parlare di imprese che oggigiorno ci pare persino incredibile lo Stato abbia, a un certo punto, posseduto (pensiamo alla Motta, all’Alemagna, alla Cirio).
Ciononostante, restano in Italia interi spazi della vita economica ancora «corporativi»: nei quali cioè mancano alcune delle caratteristiche più tipiche di un libero mercato. Due, su tutte: la libertà di entrata (di iniziare a competere in quell’ambito) e la libertà di uscita (la libertà di fallire). Queste limitazioni della libertà economica si riflettono in regolamentazioni che impediscono ad alcuni di competere, o - in alcuni casi - persino nella pianificazione dell’offerta da parte del governo
Una «liberalizzazione» è un processo che dovrebbe portare un certo settore economico ad affrancarsi: ad essere aperto all’ingresso di nuovi competitori, senza più barriere artificialmente create dalle norme dello Stato.
A fronte di questa definizione, quante e quali sono le «liberalizzazioni» autentiche, nel recente provvedimento del governo?
È una «liberalizzazione» in senso proprio la separazione della rete del gas dall'operatore dominante, l'Eni, impresa nella quale l'azionista pubblico è ancora pesante. Separare Snam Rete Gas dall'Eni non avrà un effetto immediato sui prezzi ma è importante perché già in passato si è potuto osservare come rendere terza la rete di distribuzione agevoli l'ingresso di nuovi concorrenti. Ci vorrà del tempo perché questa riforma dispieghi appieno i suoi effetti: ma si va nella direzione più opportuna.
È una liberalizzazione, ancorché parziale, quella che fa sì che l’amministrazione dei diritti connessi al diritto d’autore non debba più essere intermediata dalla sola Siae, che sino ad oggi della tutela dei diritti d’autore aveva il monopolio. La norma riguarda solo i diritti «connessi» (per intenderci, se si parla di musica, i diritti degli interpreti piuttosto che dei consumatori) ma va a ridurre il peso di un monopolio particolarmente sgradevole.
Sui servizi pubblici locali, l’esecutivo ha avvitato qualche bullone, per riavviare il percorso che dovrebbe far sì che essi vengano assegnati tramite gara, andando così ad erodere le rendite delle troppe micro-Iri locali.
Altre decisioni del governo sono meno facilmente inquadrabili, nella categoria delle «liberalizzazioni».
Alcuni interventi sono piuttosto nuove regolamentazioni. In certi casi, vanno ad ampliare (un po' meno - dopo il passaggio parlamentare) l'offerta, che rimane comunque pianificata dal pubblico. Per quanto riguarda le farmacie, per esempio, non si è scelto di portare anche i farmaci di fascia C (quelli su ricetta ma non rimborsati dallo Stato) nelle parafarmacie o nei corner del farmaco - bensì di aumentare il numero degli esercizi. Per quel che riguarda i taxi, tutto è rimasto come prima, anche se ai Comuni viene messa a disposizione di fatto la «consulenza» della nuova Autorità dei Trasporti, per aumentare le licenze.
In altri casi, i provvedimenti del governo vanno ad incidere sulle modalità con cui viene offerto un servizio. La protesta delle banche è stata un po' teatrale. Ma non si può nemmeno dire che Mussari e i suoi abbiano tutti i torti: la norma per cui i conti correnti per i pensionati fino a 1500 euro al mese diventano «gratuiti» (cioè non presenteranno costi di apertura e di gestione) non implica certo che offrire quel servizio sia per magia diventato «gratis». I bancari che assisteranno i pensionati continueranno a farsi pagare: non lavoreranno «pro bono».
È più probabile che gli istituti di credito «trasferiranno» questi costi su altri correntisti. Tali regolamentazioni rugginose diventeranno un peso ulteriore nella loro operatività - con un danno, in una fase non facile, per i loro azionisti (che sono, spesse volte, anche piccoli risparmiatori).
C’è ancora molto, allora, che resta da fare. In particolar modo, sarebbe importante che il governo mettesse mano a due dossier sempre «caldi»: quello delle ferrovie e quello delle poste. Il trasporto ferroviario avrebbe bisogno di una separazione effettiva fra la rete (i binari) e l’operatore dominante, che è una impresa pubblica. Solo in questo modo si può davvero aprire alla concorrenza: non solo sulla lucrosa Milano-Roma ma anche e soprattutto nel trasporto ferroviario regionale, dove c’è un drammatico bisogno di competizione. Per quanto riguarda le Poste, va completata la liberalizzazione del recapito, che consenta ai concorrenti di operare su un campo di gioco livellato. Potrebbe aiutare una separazione fra Poste e Banco Posta: essa potrebbe essere propedeutica anche a una privatizzazione.
Monti ha detto che «privatizzare non è liberalizzare», e questo è certamente vero. Si può anche «privatizzare» un monopolio, lasciando al privato una rendita protetta. Ma in un momento come questo, segnato da una crisi della finanza pubblica così profonda, sarebbe quantomai opportuno che le due cose andassero assieme. Per migliorare la qualità dei servizi e reperire risorse con cui sanare il nostro spaventoso debito pubblico.

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