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Falsi esami, le scorciatoie dei furbi

L’arresto di due dipendenti dell'Università di Palermo accusati di aver falsificato la documentazione informatica, caricando sul computer dell'Ateneo esami che in realtà non erano mai stati effettuati, costringe a una riflessione che va al di là del caso specifico e che proprio per questo è più inquietante. Perché un episodio del genere, già gravissimo in sé - si parla di oltre 200 caricamenti di esami inesistenti - è indice di una mentalità che ogni giorno vediamo affiorare nei comportamenti dei nostri giovani, a loro volta sollecitati dall'esempio degli adulti. È la ricerca di scorciatoie che, in una società dove la vita si è trasformata in una frenetica corsa ad ostacoli, è ormai lo stile abituale di molte persone. È il caso degli studenti e delle studentesse che hanno fatto ricorso al trucco dell'esame solo «virtuale». Si è assillati dalla paura di non farcela, di essere superati da altri più bravi o più raccomandati, si anela ad accorciare i tempi, e non si ha scrupolo di barare. Invece di puntare sulle proprie forze, di accettare i sacrifici che il maggiore impegno costringerebbe ad affrontare, si preferisce fare i furbi, magari perdendo il rispetto di se stessi.
Ma è anche l'atteggiamento dei dipendenti che sono stati smascherati. Nel loro comportamento si rispecchia il clima che oggi si respira. In un contesto dove il consumismo imperante ci abitua ad aver un tenore di vita sempre più alto, che richiede sempre più denaro, in cui lo spettacolo del benessere degli altri è ogni giorno sotto i nostri occhi, non riusciamo più spesso ad accontentarci dei mezzi economici che abbiamo effettivamente a disposizione. Lo stipendio allora non è più sufficiente. Si cercano diversivi che consentano di arrivare ad avere di più e nel più breve tempo e col minore sforzo possibile. È la stessa logica che spinge tanti commercianti, imprenditori, professionisti, all'evasione fiscale. Non si accetta di condividere con la società i propri introiti, si vuole godere per intero il frutto del proprio lavoro, dimenticando che è grazie alla comunità, al contesto di civiltà da essa creato, che possiamo svolgerlo, e che per mantenere questo contesto è normale che chi ha di più dia di più. Riducendo, così, i propri introiti. Un fenomeno meno trasgressivo, ma non meno inquietante, di quelli legati a illeciti veri e propri, è la diffusione del gioco d'azzardo, specie nella forma di scommesse, lotterie e giochi elettronici. Si può stigmatizzare, come ha fatto recentemente il ministro Andrea Riccardi, il fatto che su dieci spot pubblicitari, in onda quotidianamente sulle reti televisive, tre pubblicizzano il gioco. Ma il dramma vero è di una cultura di fondo che spinge a questo. Certo, per spiegare e in parte giustificare questa situazione si può invocare la crisi, con il suo strascico di disoccupazione o di cassa integrazione. Perciò non stupisce che si scommetta di più nelle regioni che navigano in cattive acque come Sicilia, Campania, Sardegna e Abruzzo e che i giocatori più incalliti provengano dalle famiglie a basso reddito, che investono nel gioco d'azzardo il 6,5% della propria ricchezza, senza esitare a mettersi nelle mani degli usurai pur di placare la propria febbre. Secondo recenti dati dell'Eurispes giocano il 47% degli indigenti, il 56% degli appartenenti al ceto medio-basso e il 66% dei disoccupati.
Ma non è solo il bisogno oggettivo a creare queste dipendenze, bensì anche il miraggio della ricchezza. Si accarezza - lo dice in questi giorni un manifesto pubblicitario - il sogno del lusso, del non fare rinunce di nessun tipo, neppure davanti ai desideri più capricciosi. Non sono solo le regioni povere a conoscere il fenomeno del gioco. In Lombardia i giocatori d'azzardo sono 700.000 e il 54% dei maschi sotto i 24 anni gioca almeno una volta la settimana. Allargando l'orizzonte statistico, in Italia la spesa per il gioco d'azzardo è passata dai 14,3 miliardi di euro nel 2000 a circa 80 miliardi nel 2011. Il doppio della manovra «salva-Italia». Sono cifre da capogiro. Ma ancor più da capogiro è lo specchio di una società che non punta più tanto sulla fatica del lavoro produttivo quanto sul colpo di fortuna. Il gioco rivela, in questi termini, l'ossessione del successo. Al punto da diventare una forma di dipendenza psicologica, che ci si comincia a porre il problema di curare in modo sistematico a livello sociale.
La truffa consumata ai danni del nostro Ateneo assume allora il suo più pieno significato, che va ben oltre i confini della cronaca giudiziaria. Da quest'ultimo punto di vista, si potrebbe liquidare l'episodio come un volgare caso di piccola criminalità. Nel quadro che abbiamo tracciato, esso assume invece il significato di un'ennesima forma di gioco, di quello «sporco», dove il gioco rischia di diventare il simbolo della vita così come oggi la concepiamo. [email protected]

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