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Al Massimo Gilliam il sognatore e il suo Faust dei particolari

Dal romanticismo al nazismo, perfetto il debutto operistico, con ‘La damnation de Faust’ di Hector Berlioz, dell’eccentrico cineasta che ammalia e trascina anche grazie all’elegante ‘fraseggio’ del maestro Roberto Abbado. Si inizia alle 20.45 con un applauso che accompagna lo spegnimento delle luci

PALERMO. Quel Gilliam infernale! Iniziamo dalla fine, dagli applausi a scena aperta che hanno accolto gli attori, ma soprattutto l’immaginifico regista, condotto al centro della scena dal suo Faust (Gianluca Terranova). Iniziamo dal centro, dall’inizio, da qualsiasi parte, insomma, per vedere e riconoscere la firma del regista in ogni più piccolo particolare. Ed è proprio un Faust dei particolari quello che apre i battenti della Stagione 2012 del Teatro Massimo di Palermo, e sposta l’attenzione sempre su cose differenti, perché vi è un intreccio narrativo fitto dove nulla è lasciato al caso; come durante il primo atto, quando siamo sul campo di battaglia e vediamo stillate molteplici identità ognuna con la propria vita, con il proprio operare differente: davanti, Faust con delle infermiere, circondato da moribondi, feriti, morti e, lì sullo sfondo, il divisorio di una sala operatoria di fortuna, in cui si cura qualcuno.
Lo sguardo si muove cercando di registrare tutto, ma è la lettura scenica di Gilliam a predominare, anche sulla parte lirica. Già in conferenza stampa al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, Gilliam aveva spiegato che l’approccio all’opera di Berlioz a più ‘livelli’ era stato quasi necessario: «Al primo ascolto dell’opera sono impazzito, perché il racconto di Faust è continuamente interrotto da momenti musicali. Allora ho pensato a una storia parallela legata alla cultura tedesca, che va dal tardo romanticismo al nazismo e che accompagna il racconto di Faust». Il parallelismo accompagna infatti lo spettatore, e lo fa sprofondare pian piano dal bucolico all’infernale, dai paesaggi simbolici del ‘romantico’ Caspar Friederich alle deformità del verismo di Otto Dix e George Grosz che tratteggia personaggi e scenari figli del «Neue Sachlichkeit» (Nuova Oggettività), per condurre agli umori della guerra con le sue durezze, le deformità, fatte di morti, storpi, sangue ed emarginati, sino a quanto di più terribile e iniquo l’umanità abbia potuto partorire: il nazismo, dal suo nascere, al suo nutrirsi di odio, di rigore e orgoglio della razza. Anche questa volta Gilliam tratteggia lo spirito corrotto del Terzo Reich attraverso una citazione colta, quella dei documentari di Leni Riefenstahl, la regista che esaltò con i propri documentari il regime, per sottolineare la forza propagandistica, il forte antisemitismo, il culto della razza ariana attraverso i ballerini e il coro che simulava la Germania ai giochi olimpici, quel momento storico in cui si tentò di dare al mondo un’idea differente, sospendendo le persecuzioni antisemite.
La stessa Marguerite (Anke Vondung), l’amata di Faust, oggetto della sua dannazione, è un’ebrea condotta a morire ad Auschwitz. Sono trincee emotive in cui il sulfureo è gestito dal perfetto burattinaio che è Méphistophélès (Lucio Gallo). Il baritono pugliese che, con il piglio a tratti ironico e quello sguardo penetrante, è riuscito con maestria a vestire i panni del vate infernale, grazie anche alla grande esperienza e all’intensa attività operistica che l’ha visto impegnato sia in ruoli del teatro comico di Verdi, Rossini e Mozart che in quelli del repertorio drammatico come Macbeth, Jago, Leporello, Golaud. Bravi anche il mezzosoprano Anke Vondung (Marguerite) e il tenore Gianluca Terranova (Faust), il cui personaggio, uomo di scienza e matematico, è stato tratteggiato attraverso il genio di Leonardo, il campeggiare a inizio di ogni atto dall’uomo vitruviano il  ricorrente incombere di numeri che ritornano in maniera quasi ossessiva.
Inutile negarlo, quella a cui si assiste è soprattutto ‘La damnation’ di Gilliam. Il suo Faust cinematografico non tradisce però il sogno mefistofelico di Berlioz, tutt’altro, lo esalta, come dice lo stesso Méphistophélès sottovoce a Faust «Ascolta bene: questo spettacolo, dottore, è la bestialità in tutto il suo candore», attraverso proprio quelle svastiche, le insegne, e le iconografie imperanti del regime, le stelle di David, il tragicomico balletto di gerarchi intorno alla torta che simula un’Europa dilaniata da guerre di conquista; la corsa in sidecar di Faust e Méphistophélès per salvare Marguerite, e, infine la crocefissione, in una croce uncinata, di chi ha ceduto alla dannazione. Una pila di corpi di donne, vittime del nazismo, su cui giace la bella Marguerite, è la scena finale sulla quale si stringono, a destra e sinistra del palco, le voci del Coro del Teatro Massimo, una chiusura su cui esplodono gli applausi ancor prima il sipario sia del tutto calato. E se davvero, come ha scherzato durante la conferenza stampa, che Gilliam «venderebbe l’anima per poco» perché «merce poco ambita», beh, ci perdoni, ma ci permettiamo di dissentire dicendo che quest’opera ‘dannatamente’ bella ne varrebbe molte di più.

E NON MANCANO LE PROTESTE ‘AUGURALI’. Ad accogliere lo stuolo, a tratti sfarzoso, di pubblico che si apprestava ad attraversare la monumentale scalinata di uno dei teatri più belli d’Europa, il presidio composto dai ballerini del Massimo che chiedono alla Fondazione del Teatro l’assunzione di nuovi danzatori. Momento di tensione all’arrivo in piazza Verdi di un’auto blu, a velocità sostenuta, del procuratore generale della Corte dei Conti, Giovanni Coppola, che ha tranciato di netto un cavo dell’impianto stereo dei manifestanti i quali hanno ingaggiato una discussione con l’autista. «Vergogna, vergogna!» questi i cori che si sono alzati da vari fronti, anche dal pubblico che intanto entrava a Teatro, poco dopo, però, la tensione è calata anche grazie alle scuse del procuratore Coppola a nome del suo autista.

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