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I 17 anni di Berlusconi, mai amato dai poteri forti

La stagione di Silvio Berlusconi cominciò contro le previsioni di quasi tutti, esperti e giornalisti nel 1994. L’uomo di Arcore era un parvenu: il mondo politico italiano in gran parte paludato e ampolloso non accettò mai la «discesa in campo» di un imprenditore che era sinceramente antipatico a tanti suoi colleghi e a quelli che si definiscono «poteri forti».
Parlava un linguaggio diretto e facilmente comprensibile, lontano dalle sofisticherie del ceto allevato dalla partitocrazia. Nessuno credette in lui nemmeno i giornalisti schierati per la maggior parte col centrosinistra. Alcuni di quei giornalisti arrivarono a definire Forza Italia un «partito di plastica», escrescenza aziendale di Fininvest. Nessuno aveva compreso quanto fosse cambiata la società italiana, e quali aspettative avesse maturato. Berlusconi prima di presentarsi col suo partito e gli alleati di cui diremo aveva tentato di recuperare i popolari e i rappresentanti di un centro scomparso. La sua bussola in quel momento puntava al centro, ma nessuno dei vecchi esponenti politici gli credette. Berlusconi allora era già stretto d’assedio da un gruppo di pubblici ministeri, quegli stessi che avevano sconvolto il panorama politico italiano spazzando, con Tangentopoli il vecchio quadro politico. Erano scomparsi democristiani, socialisti liberali e repubblicani (molti di loro rifluiranno poi in Forza Italia).
Il Cavaliere calzò gli stivali delle sette leghe e, dopo essersi federato con la Lega e con Alleanza Nazionale vinse le elezioni del 27 marzo 1994. Fu un cambiamento epocale per la prima volta nella storia repubblicana, dopo l’esperienza di De Gasperi, si compose un vasto raggruppamento di moderati che nei decenni precedenti si erano frazionati nel voto lasciando la Dc arbitra delle coalizioni di governo. L’alleanza con la destra di Gianfranco Fini fu significativa e, in certi termini determinante. Lo «sdoganamento» avvenne in maniera singolare. Mentre inaugurava un centro commerciale a Casalecchio di Reno, in provincia di Bologna, al Cavaliere fu chiesto da un cronista chi avrebbe scelto fra Rutelli e Fini se si fosse trovato a votare per il sindaco di Roma. Berlusconi non ebbe esitazioni e disse: «Fini». Si trattò di un passo importante, per una destra che dopo aver passato le acque a Fiuggi, aveva scelto di essere moderna, europea, democratica. Quella destra che per anni era stata rinchiusa nel lazzaretto dei lebbrosi, bandita da ogni possibilità di accesso al governo col tabù dell’«arco costituzionale».
Fu così che si posero le basi del «Polo del buon governo», che appunto nel marzo del ’94 trionfò alle elezioni. L’azione della magistratura con Tangentopoli aveva sconvolto il panorama precedente ma, gli eredi del Pc , pur avendo gestito buona parte del consociativismo e una macchina politica imponente e costosa, furono di fatto risparmiati. Fu questo che indusse molti a ritenere i pm d’assalto politicamente orientati a sinistra. L’azione dei giudici fu definita «rivoluzione dolce», ma tanto dolce non fu se si tiene conto che Tangentopoli lasciò anche una scia di numerosi siucidi, con l’uso ingiustificato ed eccessivo della carcerazione preventiva.
Il primo governo Berlusconi si insediò nel maggio ’94, ma non durò a lungo. A dicembre dovette dimettersi, per il «ribaltone», voluto da Bossi e da alcuni ex democristiani. All’origine della caduta il giudizio negativo della Lega, e anche dei sindacati per i minacciati ritocchi al welfare. Nessuno voleva che si mettesse mano alle pensioni di anzianità, questione che ci tormenta ancora oggi. A quel punto venne insediato, senza consultare i cittadini un cosiddetto «governo tecnico» guidato da Lamberto Dini, che per altro fu indicato dallo stesso Berlusconi. Il governo Dini durò fino al ’96. In quella data si tennero le elezioni che vinse Romano Prodi candidato premier del centrosinistra.
Il Professore rappresentava idealmente la continuità democristiana e la propaganda berlusconiana sostenne che era una foglia di fico per nascondere la presenza e la preponderanza degli ex comunisti. Il governo Prodi ebbe vita tormentata e alla fine nel ’98 dovette cedere lo scranno di presidente del consiglio a Massimo D’Alema. Che Berlusconi aveva sempre indicato come reale dominus della coalizione. Il governo finì nel 2001 quando si svolsero le elezioni che Berlusconi vinse con una maggioranza schiacciante.
Il governo giunse alla fine della legislatura senza realizzare però il programma che aveva infiammato i moderati, soprattutto senza realizzare la riforma fiscale che avrebbe dovuto abbassare le tasse per tutti. Su quel tema si registrarono i primi contrasti con Fini e Casini che avrebbero voluto riduzioni fiscali solo per i ceti meno abbienti.
Ma prima delle nuove elezioni fissate per il 2006, si svolse una feroce campagna mediatico-giudiziaria contro il Cavaliere si sostenne che era stato il principe dei corruttori condizionando i magistrati di Roma per diversi casi importanti. I processi iniziati in quel periodo a poco a poco deperirono e si estinsero senza conseguenze, ma il marchio fu ostentato dalla stampa avversaria e dai critici feroci dell’opposizione anche per questo motivo le elezioni del 2006 le vinse ancora una volta Prodi. Ma il suo governo nacque debole e crebbe rachitico anche per la presenza nella maggioranza di esponenti della sinistra movimentista ed extra parlamentare. L’azione di Prodi osteggiato dai suoi stessi ministri fu disastrosa e diede l’impressione di non essere adeguata a risolvere i problemi del Paese.
Nel 2008 la rivincita del Cavaliere fu piena e clamorosa, dando a Berlusconi una maggioranza mai registrata in epoca repubblicana. La crisi globale ha consumato i crediti di fiducia e i meriti, che pure ci sono stati dell’azione di governo. Ieri l’uomo di Arcore è stato costretto alle dimissioni e molti sostengono che la sua stella sia definitivamente tramontata, ma è facile ingannarsi Berlusconi è risorto più volte dalle sue stesse ceneri nonostante le intercettazioni e il gossip violento. Non è escluso che per lui si debba riesumare il nomignolo col quale si indicava Amintore Fanfani: il «rieccolo», che il leader democristiano si era meritato per ritornare sempre in piedi e in vista dopo che tutti l’avevano dato per spacciato.
Ieri il presidente del consiglio è salito al Quirinale a presentare le sue dimissioni.
Molti sostengono che gli succederà come premier Mario Monti, ma la situazione per l’economista non è tanto facile. La sinistra è sempre divisa, così come è diviso il Pdl, ma è probabile che l’ipotesi del governo tecnico non possa essere realizzata.
Perché in Italia nulla è più definitivo del provvisorio e un governo che durasse a lungo senza la legittimazione popolare costituirebbe un salto all’indietro, ai tempi della Prima Repubblica trionfante.

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