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Libia, paese tra caos e democrazia

TRIPOLI. Muammar Gheddafi ha mantenuto la parola: anziché tentare di fuggire all’estero - come avrebbe potuto - è morto da combattente sul suolo libico dopo un’ultima disperata resistenza nella sua città natale di Sirte. Forse non conosceremo mai con certezza le circostanze della sua fine: al momento ne esistono almeno quattro versioni. La più probabile è che sia stato anzitutto ferito da un razzo lanciato da un elicottero della Nato, si sia rifugiato in un cunicolo e qui sia stato stanato dai ribelli, catturato vivo e poi freddato da un giovane miliziano, non si sa se per ordine del Comitato nazionale transitorio o su iniziativa locale.
Una sia pure approssimativa ricostruzione degli eventi, basata su testimonianze e immagini, fa propendere per una esecuzione sommaria, nella maniera di Ceausescu.
In ogni caso la sua morte cruenta, la cattura o l'uccisione dei suoi figli e degli ultimi fedelissimi e la conquista degli ultimi bastioni della resistenza a Sirte e Bani Walid dovrebbe mettere fine al conflitto e di conseguenza portare tra breve alla sospensione dell'intervento dell'Alleanza atlantica.



Il leader della rivolta Jibril si è impegnato ad avviare subito il percorso verso la democrazia, formando entro un mese un governo di unità nazionale e convocando una assemblea costituente entro il giugno dell'anno prossimo. I Paesi che lo hanno sostenuto lo sollecitano anche a riunire al più presto le milizie protagoniste della guerra di liberazione in un esercito nazionale dotato di una regolare struttura di comando, per evitare che comincino a combattersi tra loro e si abbandonino a rappresaglie e saccheggi. Già oggi, a Tripoli, c'è una mezza rivolta contro le prepotenze dei combattenti calati sulla capitale da Misurata e da Zintan.
Le incognite, tuttavia, sono molte, e la Libia non può assolutamente permettersi vuoti di potere: bisogna trovare una intesa tra le varie componenti della rivolta, evitare uno scontro tra le tribù, tenere a bada gli islamisti che dall'inizio della rivolta hanno guadagnato molto terreno, tanto che il comandante delle forze ribelli a Tripoli, Abdelhakim Belhaj, è addirittura un esponente di Al Qaeda già passato per le carceri americane.
Un'altra priorità sarà di evitare repressioni e vendette contro coloro che hanno fatto parte del regime caduto e sono rimasti fedeli a Gheddafi: Amnesty international ha già pubblicato in proposito un rapporto molto inquietante, secondo il quale i nuovi governati usano nei confronti dei nemici sconfitti gli stessi metodi brutali in vigore quando comandava il colonnello. Le raccapriccianti scene riprese dalle tv arabe e ritrasmesse in tutto il mondo su come la gente ha infierito sul suo corpo sembrano anticipare nuovi orrori, cui la comunità internazionale non avrà molti strumenti per opporsi.



Questa comunità ha già cominciato a dibattere se l'uccisione di Gheddafi sia stato una comprensibile, se non legittima, ritorsione per i crimini commessi ai danni del suo popolo in 42 anni di dittatura, o se sarebbe stato meglio catturarlo vivo e sottoporlo a regolare processo, nella stessa Libia o davanti alla Corte internazionale dell'Aja. In realtà, è probabile che questa conclusione della sua vicenda faccia comodo un po' a tutti. Ai nuovi dirigenti del Paese, perché anche da prigioniero Gheddafi sarebbe rimasto un punto di riferimento per i suoi superstiti sostenitori e, dall'aula di giustizia, avrebbe potuto lanciare proclami incendiari suscettibili di complicare la situazione. Ai governi occidentali, che fino all'anno scorso hanno avuto con lui rapporti non sempre chiari, su cui il colonnello, nel tentativo di difendersi, avrebbe probabilmente fornito imbarazzanti rivelazioni. Agli altri Paesi arabi, molti dei quali detestavano Gheddafi e in parte hanno addirittura partecipato alle operazioni militari della Nato contro di lui, ma che hanno a loro volta un buon numero di scheletri nell'armadio. Molti devono avere pensato che la morte di Gheddafi è il modo migliore per chiudere un capitolo di storia e iniziarne uno nuovo.



Ora che la Libia è stata formalmente «liberata» e dovrebbe avere tra breve un governo regolare, bisognerà cominciare a sciogliere i tanti nodi venuti nel frattempo al pettine ma rimasti irrisolti. I nuovi padroni riconosceranno i trattati (e i contratti) conclusi da Gheddafi, tra cui il recente trattato di amicizia con l'Italia, o decideranno di fare tabula rasa? In particolare, l'Eni riuscirà a rimanere la principale compagnia petrolifera straniera, o rischia di essere scalzata da francesi e inglesi, che Jibril - o chi ne prenderà il posto - dovrà pure premiare per il loro decisivo intervento militare a suo favore? Rimangono validi gli accordi con il vecchio regime che avevano messo praticamente fine alla partenza di immigrati clandestini dai porti libici verso l'Italia? Chi erediterà le importanti partecipazioni azionarie e gli altri investimenti del colonnello nel nostro Paese?



Il ministro La Russa, che è stato a Tripoli nei giorni scorsi, sostiene che l'atteggiamento dei nuovo governanti nei confronti dell'Italia è estremamente amichevole, tanto che avrebbero riconosciuto perfino un ruolo positivo al nostro colonialismo che Gheddafi aveva demonizzato. Ma in questa fase le parole contano poco, specie tenuto conto che non sappiamo ancora chi prenderà il potere. Chiusa - a meno di sorprese - la fase della guerra civile, ne comincia una altrettanto delicata, in cui l'Italia dovrà giocare con abilità le carte di cui dispone.

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