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La rivolta agrigentina per dire no al racket

Intervista a Giuseppe Catanzaro, presidente di Confindustria Agrigento. Ha 44 anni e lavora con i fratelli Lorenzo e Fabio nell'azienda di famiglia. Da sei anni gira sotto scorta, ha detto no importanti e puntuali sono arrivate le intimidazioni, gli attentati, anche di recente

PALERMO. Ci sono parole che fanno viaggi infiniti. Ad esempio: pizzo. Viaggiano negli anni, si trasformano per strada, impallinano i bersagli più diversi. Pizzo. Mafia, racket, avvertimento, proiettili, commercianti. Addio. Viaggia, lui, il pizzo. E noi ne spiamo le deambulazioni nel corso degli anni, sta a vedere che si impara qualcosa. C'è stato un tempo in cui pizzo significava pagare, in automatico. Passano gli anni e pizzo significa sempre più non pagare. In mezzo ai due estremi, tante vittime ma anche tanti che, a poco a poco, hanno convertito la paura in strategia, e hanno permesso a un paesaggio caotico di entrare in una cornice di regole. Un bel quadro per rompere col grigio del cemento, è proprio il caso di dire. Confindustria che decide di espellere gli imprenditori che pagano e si lasciano vessare, perché non si può essere soci di chi finanzia la mafia, è un bellissimo affresco.
Uno dei personaggi dipinti è Ci sono parole che fanno viaggi infiniti. Ad esempio: pizzo. Viaggiano negli anni, si trasformano per strada, impallinano i bersagli più diversi. Pizzo. Mafia, racket, avvertimento, proiettili, commercianti. Addio. Viaggia, lui, il pizzo. E noi ne spiamo le deambulazioni nel corso degli anni, sta a vedere che si impara qualcosa. C'è stato un tempo in cui pizzo significava pagare, in automatico. Passano gli anni e pizzo significa sempre più non pagare. In mezzo ai due estremi, tante vittime ma anche tanti che, a poco a poco, hanno convertito la paura in strategia, e hanno permesso a un paesaggio caotico di entrare in una cornice di regole. Un bel quadro per rompere col grigio del cemento, è proprio il caso di dire. Confindustria che decide di espellere gli imprenditori che pagano e si lasciano vessare, perché non si può essere soci di chi finanzia la mafia, è un bellissimo affresco.
Uno dei personaggi dipinti è Giuseppe Catanzaro, vicepresidente di Confindustria Sicilia e presidente di Confindustria Agrigento. Ha 44 anni e lavora con i fratelli Lorenzo e Fabio da quando di anni ne aveva 23 anni, alla fine degli anni '80. Azienda di famiglia, prima legata all'edilizia poi alla realizzazione di impianti di gas metano, quindi allo smaltimento dei rifiuti. Da lì parte un'avventura che adesso poggia su più mercati - ex Jugoslavia e Tunisia - e più settori, che concorrono alla realizzazione di una macchina in grado di intercettare i gas emessi da impianti e discariche. Fatturato di 30 milioni annui, cento dipendenti tra diretti, l'80%, e indotti. Di questi, il 40% si dedica all'aspetto tecnologico: innovazione e ricerca rappresentano la vera sfida. Lui, Giuseppe, da sei anni gira sotto scorta, ha detto no importanti e puntuali sono arrivate le intimidazioni, gli attentati, anche di recente. Per questo l'avevi immaginato ingoiato da una vita quotidiana inimmaginabile, triturato dalla sua attività e dalle sue scelte. Sbagliato. È un signore tranquillo, con idee chiare, nessun pentimento s'aggira dalle sue parti, anzi, appare persino felice della vita blindata, ha parole d'affetto per chi lo segue come ombra benevola.
Ha appena finito di leggere il libro di Piero Bevilacqua che si muove tra crisi e capitalismo. È uno che dice: «Noi fuori portiamo il sapere siciliano».
E cos'è?
«È l'orgoglio di presentarsi in un Paese, sia comunitario che in via di sviluppo, con una squadra di tecnici e legali capaci e con idee chiare».
Vuoi vedere che è più semplice lavorare fuori dalla Sicilia?
«Qui la complicazione è data da un meccanismo di produzione figlio di un sistema politico-burocratico che non guarda all'impresa come mezzo per creare benessere. Per certi aspetti una mala burocrazia ha effetti peggiori della criminalità che dalle nostre parti si chiama mafia».
Ecco, l'ha pronunciata quella parola che non vorrebbe più né sentire né scrivere. E che gli ha imposto una scelta precisa: quella di non essere permeabile alle minacce e di stare dalla parte opposta, quella di non sfogliare i suoi libri contabili e trovare nomi di chi offre protezioni e scorciatoie, di chi olia ingranaggi e facilita accessi alla macchina pubblica.
La scelta di denunciare...
«Lo rifarei e suggerisco a tutti di farlo. Sono sposato, felicemente, e da sei anni la mia vita è migliorata perché per 14 ore al giorno vivo in compagnia di uomini della polizia di Stato che per me rappresentano il primo baluardo della democrazia del mio Paese».
Nel frattempo nasce una sorta di carta costituzionale delle imprese: il bilancio è importante, comportamenti pure: «Strumenti come il codice etico, i protocolli d'intesa sono stati decisivi per un cambiamento culturale: gli imprenditori non hanno più scuse, se pagano fanno una scelta di convenienza e collusione. Oggi nessuno può, e deve, avere più paura». Parole che sono un grimaldello. Chissà come si è formato questo signore, se ha avuto modelli forti, genitori coraggiosi e buoni maestri come quelli che auspicava Bufalino: «Certo, questo background c'è stato, ma hanno inciso anche gli uomini dello Stato che ho incontrato successivamente. Loro sì che rischiano. In Sicilia abbiamo forze dell'ordine eccellenti e i magistrati migliori. Purtroppo, come sosteneva Libero Grassi, gli imprenditori mafiosi o collusi sono più pericolosi dei mafiosi perché alterano la libera competizione».
La mafia, dopo aver dato del suo peggio nell'urbanizzazione abusiva, quella colata di cemento che s'è abbattuta sulla Sicilia - Agrigento che smentisce Pindaro - nel traffico di droga, oggi cambia pelle, diventa manageriale: «Chi non impedisce certi scempi, chi garantisce la pax mafiosa, è colpevole. Oggi mafia e imprenditori mafiosi puntano sul business dell'immondizia, sull'economia non materializzabile: sanità, ciclo dei rifiuti, energia rinnovabile. E gli strumenti che si offrono per combattere tutto questo non sono efficaci e veloci come quelli adoperati da chi porta avanti interessi illeciti. Sostenere che preso l'ultimo latitante, Matteo Messina Denaro, la mafia sarà sconfitta, è un errore. Occorre liberarsi dai mafiosi che interagiscono con pezzi malati della politica. E inasprire le pene». Mica facile. A volte sembra che l'antimafia della retorica superi quella delle denunce: «Le passerelle sono sterili. Ma la memoria è fondamentale se aiuta il dibattito, se alimenta le coscienze, se sostiene le istituzioni».
Spiega perché pagare il pizzo non conviene: «Il racket strozza l'economia: da nostri studi vien fuori che, in un arco di tempo piuttosto breve, l'imprenditore che si piega al pizzo fallisce, perché entra in una spirale perversa e crescente di richieste: la fornitura merci, la manovalanza, l'usura. Chi paga danneggia l'economia, se stesso e il futuro dei propri figli. La situazione, però migliora». Ma: «Ma le istituzioni locali devono essere trasparenti, abolire i favoritismi. Anche in Sicilia deve vincere il mercato della normalità, come a Belluno, a Francoforte. L'unica preoccupazione di un imprenditore deve essere quella di vendere i propri servizi o prodotti». Solo allora il pizzo, la parola viaggiante, non sarà più una vertiginosa palude, non più il triangolo delle Bermuda di qualsiasi riflessione. Finirà dentro la voragine delle coscienze. E, finalmente, fuori dalle menti.

con i fratelli Lorenzo e Fabio da quando di anni ne aveva 23 anni, alla fine degli anni '80. Azienda di famiglia, prima legata all'edilizia poi alla realizzazione di impianti di gas metano, quindi allo smaltimento dei rifiuti. Da lì parte un'avventura che adesso poggia su più mercati - ex Jugoslavia e Tunisia - e più settori, che concorrono alla realizzazione di una macchina in grado di intercettare i gas emessi da impianti e discariche. Fatturato di 30 milioni annui, cento dipendenti tra diretti, l'80%, e indotti. Di questi, il 40% si dedica all'aspetto tecnologico: innovazione e ricerca rappresentano la vera sfida. Lui, Giuseppe, da sei anni gira sotto scorta, ha detto no importanti e puntuali sono arrivate le intimidazioni, gli attentati, anche di recente. Per questo l'avevi immaginato ingoiato da una vita quotidiana inimmaginabile, triturato dalla sua attività e dalle sue scelte. Sbagliato. È un signore tranquillo, con idee chiare, nessun pentimento s'aggira dalle sue parti, anzi, appare persino felice della vita blindata, ha parole d'affetto per chi lo segue come ombra benevola.
Ha appena finito di leggere il libro di Piero Bevilacqua che si muove tra crisi e capitalismo. È uno che dice: «Noi fuori portiamo il sapere siciliano».
E cos'è?
«È l'orgoglio di presentarsi in un Paese, sia comunitario che in via di sviluppo, con una squadra di tecnici e legali capaci e con idee chiare».
Vuoi vedere che è più semplice lavorare fuori dalla Sicilia?
«Qui la complicazione è data da un meccanismo di produzione figlio di un sistema politico-burocratico che non guarda all'impresa come mezzo per creare benessere. Per certi aspetti una mala burocrazia ha effetti peggiori della criminalità che dalle nostre parti si chiama mafia».
Ecco, l'ha pronunciata quella parola che non vorrebbe più né sentire né scrivere. E che gli ha imposto una scelta precisa: quella di non essere permeabile alle minacce e di stare dalla parte opposta, quella di non sfogliare i suoi libri contabili e trovare nomi di chi offre protezioni e scorciatoie, di chi olia ingranaggi e facilita accessi alla macchina pubblica.
La scelta di denunciare...
«Lo rifarei e suggerisco a tutti di farlo. Sono sposato, felicemente, e da sei anni la mia vita è migliorata perché per 14 ore al giorno vivo in compagnia di uomini della polizia di Stato che per me rappresentano il primo baluardo della democrazia del mio Paese».
Nel frattempo nasce una sorta di carta costituzionale delle imprese: il bilancio è importante, comportamenti pure: «Strumenti come il codice etico, i protocolli d'intesa sono stati decisivi per un cambiamento culturale: gli imprenditori non hanno più scuse, se pagano fanno una scelta di convenienza e collusione. Oggi nessuno può, e deve, avere più paura». Parole che sono un grimaldello. Chissà come si è formato questo signore, se ha avuto modelli forti, genitori coraggiosi e buoni maestri come quelli che auspicava Bufalino: «Certo, questo background c'è stato, ma hanno inciso anche gli uomini dello Stato che ho incontrato successivamente. Loro sì che rischiano. In Sicilia abbiamo forze dell'ordine eccellenti e i magistrati migliori. Purtroppo, come sosteneva Libero Grassi, gli imprenditori mafiosi o collusi sono più pericolosi dei mafiosi perché alterano la libera competizione».
La mafia, dopo aver dato del suo peggio nell'urbanizzazione abusiva, quella colata di cemento che s'è abbattuta sulla Sicilia - Agrigento che smentisce Pindaro - nel traffico di droga, oggi cambia pelle, diventa manageriale: «Chi non impedisce certi scempi, chi garantisce la pax mafiosa, è colpevole. Oggi mafia e imprenditori mafiosi puntano sul business dell'immondizia, sull'economia non materializzabile: sanità, ciclo dei rifiuti, energia rinnovabile. E gli strumenti che si offrono per combattere tutto questo non sono efficaci e veloci come quelli adoperati da chi porta avanti interessi illeciti. Sostenere che preso l'ultimo latitante, Matteo Messina Denaro, la mafia sarà sconfitta, è un errore. Occorre liberarsi dai mafiosi che interagiscono con pezzi malati della politica. E inasprire le pene». Mica facile. A volte sembra che l'antimafia della retorica superi quella delle denunce: «Le passerelle sono sterili. Ma la memoria è fondamentale se aiuta il dibattito, se alimenta le coscienze, se sostiene le istituzioni».
Spiega perché pagare il pizzo non conviene: «Il racket strozza l'economia: da nostri studi vien fuori che, in un arco di tempo piuttosto breve, l'imprenditore che si piega al pizzo fallisce, perché entra in una spirale perversa e crescente di richieste: la fornitura merci, la manovalanza, l'usura. Chi paga danneggia l'economia, se stesso e il futuro dei propri figli. La situazione, però migliora». Ma: «Ma le istituzioni locali devono essere trasparenti, abolire i favoritismi. Anche in Sicilia deve vincere il mercato della normalità, come a Belluno, a Francoforte. L'unica preoccupazione di un imprenditore deve essere quella di vendere i propri servizi o prodotti». Solo allora il pizzo, la parola viaggiante, non sarà più una vertiginosa palude, non più il triangolo delle Bermuda di qualsiasi riflessione. Finirà dentro la voragine delle coscienze. E, finalmente, fuori dalle menti.

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