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Mafia, la Procura chiede il rinvio a giudizio di Romano

Depositata questa mattina la richiesta di processo nei confronti del ministro dell’Agricoltura. Il suo commento: corto circuito istituzionale

PALERMO. L'atto di accusa della Procura di Palermo nei confronti del ministro dell'Agricoltura Saverio Romano è lungo due pagine e porta la firma del sostituto Nino Di Matteo e dell'aggiunto Ignazio De Francisci. Un provvedimento imposto dal gip, che la scorsa settimana ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dai pm e ordinato la richiesta di rinvio a giudizio che da oggi rende formalmente il politico dei Responsabili imputato di concorso in associazione mafiosa.  


"Sono vittima di una ritorsione politica, per aver salvato con il mio voto, il 14 dicembre, insieme ad altri colleghi deputati, la maggioranza e il governo", dice Romano. Il ministro dell'Agricoltura, conferma, in una conferenza stampa alla Camera, che resterà "a testa alta" nel governo Berlusconi, dopo la richiesta di rinvio a giudizio. E critica il presidente della Camera, che ha detto che sarebbero 'opportune' le sue dimissioni: "A chi si erge a difensore della morale e che ha favorito i propri familiari", "vorrei dire che se l'opposizione ha tutto il diritto di attaccarmi e chiedere le mie dimissioni", altri, "che svolgono ruoli di terzietà, non hanno diritto di intervenire su una vicenda squisitamente politica". L'eco della decisione dei pm palermitani arriva a Roma, dove da Sel, Idv e Fli si leva la richiesta di dimissioni del ministro. Con Fabio Granata, componente dell'Antimafia di Futuro e Libertà, che invocando il "percorso di trasformazione del Pdl in partito degli onesti", sollecita una presa di posizione della formazione di Silvio Berlusconi.  


Dopo la richiesta dei pm il gup ha due giorni - ma il termine non è vincolante - per fissare l'udienza preliminare: è prevedibile che la data di inizio slitti a dopo l'estate.   Nel merito il capo di imputazione "prende" molto dal provvedimento articolato con cui il gip ha rigettato l'archiviazione. La procura, convinta della contiguità tra Romano e Cosa nostra, riteneva di non poter provare il sostegno concreto del politico all'organizzazione: elementi che la giurisprudenza pretende per la configurazione del concorso. Per il gip, invece, ce ne è abbastanza per sostenere l'accusa in giudizio.  


Sulla scorta delle riflessioni del giudice i pm elencano ora la sfilza delle accuse a Romano "vicino" ai clan, secondo gli inquirenti, per un ventennio.    "Nella sua veste di esponente politico di spicco, prima della Dc e poi del Ccd e Cdu e, dopo il 13 maggio 2001, di parlamentare nazionale - scrivono i magistrati nella richiesta di rinvio a giudizio - avrebbe consapevolmente e fattivamente contribuito al sostegno ed al rafforzamento dell'associazione mafiosa, intrattenendo, anche alla fine dell'acquisizione del sostegno elettorale, rapporti diretti o mediati con numerosi esponenti di spicco dell'organizzazione tra i quali Angelo Siino, Giuseppe Guttadauro, Domenico Miceli, Antonino Mandalà e Francesco Campanella". Secondo il Pm, inoltre, il ministro avrebbe "messo a disposizione di Cosa nostra il proprio ruolo, contribuendo alla realizzazione del programma criminoso dell'organizzazione tendente all'acquisizione di poteri di influenza sull'operato di organismi politici e amministrativi".


In particolare, nella richiesta il Pm Di Matteo fa cenno all'interessamento di Romano a candidare, su input del boss Guttadauro, Mimmo Miceli, poi condannato per mafia, alle regionali del 2001. E ancora, insieme all'ex governatore siciliano Totò Cuffaro, in carcere per favoreggiamento aggravato, avrebbe assecondato le richieste del capomafia Nino Mandalà inserendo Giuseppe Acanto nelle liste dei candidati del Biancofiore per le regionali del 2001, "nella consapevolezza di esaudire desideri di Mandalà e, più in generale, della famiglia mafiosa di Villabate". Abbastanza, per il gip e ora per la Procura, per andare avanti.

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