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Quando c'era il medico di "condotta"

Vero pilastro della medicina del territorio, la sua scomparsa non sarà mai abbastanza deplorata. Operava negli angoli più remoti del consorzio civile, scrupoloso nel suo dovere, premurosissimo con i suoi malati, affettuoso con i poveri.

Un epicedio malinconico per l'antica medicina. «Non noi della città, non noi della cattedra, non noi delle misere onorificenze, ma sarete voi l'aristocrazia legittima della nostra classe». Ho rivisto con la mente l'austera e paterna figura del sommo tra i sommi maestri, del principe tra i clinici del ’900, Augusto Murri mentre pronunciava queste parole di ossequio e riconoscenza ai medici condotti. Il dottore di «condotta», vero pilastro della medicina del territorio, la cui scomparsa non sarà mai abbastanza deplorata.
Riflessione conseguente alle continue e martellanti denunce di organi di stampa, tv, media su gravi carenze del sistema pubblico della salute, con esasperazione e sofferenze di malati, familiari, cittadini. La lettura dei giornali, con i titoli sulla sanità sparati in prima pagina, è deprimente. La Sicilia, in più, arranca perché sconta antiche insufficienze ancora non sanate. Negli anni si è scatenato uno «tsunami» di sigle incomprensibili - Usl, Ussl, Saub, Asl, Asp, Pta, Cup, Ppi, Aft, Ppip - senza ancora aver trovato valide soluzioni.
Locali di primo soccorso divenuti caravanserragli; liste di attesa con tempi biblici, che suonano offesa al paziente; ospedali e paesi in crisi per carenza di camici bianchi ed eccesso di precari; medici generici in lotta con la banda larga informatica ancora inadeguata e con la mannaia del licenziamento; dottori in trincea sfibrati da turni di notte, tante volte umiliati, vilipesi e denunciati per un «mestiere» considerato degradato. Una emergenza continua.
Lo sfarinamento dei bastioni della medicina territoriale - teoricamente evocata e auspicata - è tra le prime cause delle attuali disfunzioni. Questo tipo di assistenza sanitaria è l'unica che può impedire l'inondazione inarrestabile dei cittadini verso l'ospedale, con conseguenti accessi impropri, disfunzioni, inefficienze, inappropiatezze, spropositi, disagi. Le conseguenze a cascata sono ineluttabili.
I giornali degli Stati Uniti - mosca cocchiera che molto spesso gli italiani seguono acriticamente - cominciano a denunziare l'ipertecnologia dominante, l'esasperata telemedicina, la spersonalizzazione, il subappalto e il caporalato nelle indagini diagnostiche, il troppo e il troppo veloce richiesti nelle attività biomediche e chirurgiche. L'ospedale trasformato in macchina o catena di montaggio. Una sanità senz'anima. Questa medicina è un progresso?
La medicina odierna è la risultante di due vettori asimmetrici, che spesso si divaricano e non convivono. Il primo connotato da strepitosi e imprevedibili evoluzioni tecnico-scientifiche della biomedicina: spettacolosi avanzamenti in campo diagnostico, farmacologico, terapeutico, chirurgico; bio-, nano- e infoscienze con espandersi crescente di medicina predittiva, molecolare, rigenerativa. Mentre l'intelletto umano continua ad esplorare oceani ignoti.
Il secondo parametro è l'evoluzione strutturale del sistema sanitario nel nostro Paese. Dal dopoguerra in poi si è assistito a ingravescenti fenomeni: burocratizzazione, con il medico-funzionario che fa domande soprattutto per riempire formulari; trasformazione dell'atto sanitario in impiego; svilimento della professione; deresponsabilizzazione dei curanti; disumanizzazione delle terapie; soggezione alla politica; schiavitù di servizi, ordinamenti, obblighi, con sanzioni incombenti per i medici. I dottori sempre più indotti - per ragioni gestionali e organizzative - a erogare prestazioni difformi dal titolo di studi conseguito.
Il medico si trova al centro di questa variegata temperie, che non permette di saldare scienza e valori umani. La sfida sanitaria non è solo tecno-economica, ma soprattutto etico-sociale e culturale. Un contributo a questa continua divaricazione tra chi cura e chi ha bisogno di cure forse trova origine nell'assetto didattico dei corsi di laurea in medicina e chirurgia, sbilanciati in senso biomedico e tecnologico. L'empatia verso la sofferenza si è affievolita, in quanto si insegnano, per lo più, schemi e dati di patologie.
Incombe, inoltre, un’emorragia inesorabile di risorse umane. Si stima che entro il 2015 circa 20 mila medici lasceranno ospedali e strutture assistenziali per pensionamento. La carenza sarà molto grave nei paesi e borghi di provincia: 11 milioni di italiani rimarranno senza dottori.
Fenomeno identico si verifica in Germania, con la ricerca affannosa di medici condotti. Trova consenso la proposta di riservare un contingente di posti a medicina - al di fuori del numero chiuso degli atenei tedeschi - per i giovani che si impegnano a trasferirsi e lavorare nei paesini di campagna.
Merita una riflessione l'antico rapporto, ancora insuperato, tra il cittadino infermo e il medico condotto. Il medico condotto è stato, per oltre un secolo, istituzione portante del sistema sanitario. Operava negli angoli più remoti del consorzio civile, scrupoloso nel suo dovere, premurosissimo con i suoi malati, affettuoso con i poveri. «A cavallo, alle cinque del mattino, alla luce della lanterna, tra la neve e il vento che turbinava», com'è descritto nei Dolci ricordi di Renato Fucini.
Negli ultimi 30 anni la medicina di famiglia ha subito radicali cambiamenti. Il medico condotto è diventato quello della mutua, poi sostituito dal medico «di base» convenzionato per la medicina generale. Si sono via via dispersi patrimoni ed esperienze, creando strutture sanitarie pittoresche ad alto tasso di burocrazia, con scarsa dottrina: guardie mediche notturne e festive, guardie turistiche, nuclei operativi.
Questi scenari mi hanno fatto ricordare le parole di Murri. Un amarcord del medico condotto, «umile eroe», figura cantata da grandi scrittori e poeti come Carducci e Pascoli, entrambi figli di medici di campagna: sacrificato, mal retribuito, in un ambiente duro, ove si cerca di prevenire e curare tutte le miserie umane, con decoro e indipendenza. Il dottore che si spostava - con il biroccino, poi con la bicicletta, la lambretta, l'utilitaria - e che accettava semplici regalie, offerte con gratitudine dalla povera gente consolata, abbracciata, guarita: vino, uova, salumi, frutta, galline e capponi. Una medicina sana, pulita che odorava di bucato.
Il medico di condotta andava oltre il dato clinico, nel «rapporto duale» della visita. Egli vedeva di frequente soggetti con sintomi senza malattia, per i quali era necessario un approccio psicologico diverso dalla cura di una affezione organica. Riusciva a penetrare collocazione civile del malato, difficoltà economiche, delusioni e preoccupazioni della famiglia. Da clinica a medicina sociale. Diagnosi e terapia nascevano così dalla storia personale del paziente e dal riscontro di un ambiente di vita. Oggi tutto ciò per il medico è diventato impossibile per obbligazioni e precetti già descritti.
«La serenità suprema del vostro compito nella vita, appare d'un tratto col suo carattere sacro», disse di loro Giovanni Pascoli. Poesia crepuscolare? Nostalgia e ricordi fuori del tempo? Forse, secondo presunti e aridi ottimati efficientisti, afflitti dal complesso dei migliori. Il governo clinico e la dignità del malato devono tornare ad essere il baricentro del «pianeta sanità»: medicina incentrata sull'uomo e costruita sulle evidenze scientifiche. La sanità come servizio e non potere, patrimonio dell'intera comunità, con valori senza età. Un'eredità disponibile per oggi e per domani

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